Sono sempre più convinto che linformazione stia svolgendo un ruolo fondamentale nellorientare lopinione pubblica in modo estremamente negativo. Ho riflettuto a lungo prima di arrivare a questa conclusione. Non immagino congiure dei poteri forti, che pure sono scesi in campo contro il governo. Sicuramente è vero che una grande parte dei media è schierata politicamente e non rinuncia a condurre la sua battaglia. Ma la spinta allo sfascio è troppo generalizzata e diffusa per affidarsi a nuovi teoremi.
Sono persuaso, invece, che vi siano delle logiche autonome, interne al mondo della comunicazione in forza delle quali si ritiene che solo un certo tipo di notizie facciano audience. Col tempo un certo modo di presentare le cose si è trasformato nel campionario degli stereotipi,nel trionfo dei luoghi comuni.
Fanno notizia i precari, non i giovani (sono ancora la maggioranza) che lavorano. Fa parlare la Fiom, non la maggioranza dei sindacati appartenenti alla stessa Cgil che continuano a svolgere il loro compito in modo responsabile. E trendy parlare il declino del Paese, del suo apparato produttivo, della disoccupazione degli italiani, senza accostare tale fenomeno al caso del lavoro rifiutato e lasciato alla crescente presenza del lavoro straniero.
Nei giorni scorsi ho partecipato alla presentazione del report sugli scenari industriali del Centro studi della Confindustria. Ho ascoltato le relazioni e lintervento conclusivo di Emma Marcegaglia. Il giorno dopo, sui quotidiani, ho avuto limpressione che venisse raccontato un convegno diverso da quello a cui avevo partecipato. Secondo il Centro studi di viale dellAstronomia che si è guardato bene dal fare concessioni ad un ottimismo ingiustificato – lItalia ha pagato un prezzo elevato ad una crisi con le caratteristiche di una
Tra il 2007 e il 2010, quasi tutti i Paesi di più antica tradizione industriale hanno registrato significativi arretramenti. LItalia è scesa dal 4,5% al 3,4% sul valore della produzione industriale, passando dal 5° al 7° posto nel mondo, restando però al 2° in Europa subito dopo la Germania e davanti a tutti gli altri Paesi di recente come di antica adesione alla Ue. A conferma, dunque, della vocazione industriale del nostro apparato produttivo pur allinterno di un mercato globale che ha cambiato punti di riferimento, se si pensa che, nel periodo considerato, i paesi emergenti dellAsia hanno conquistato quasi 9 punti percentuali nelle quote di produzione industriale mondiale salendo al 29,7%. Che senso ha allora denunciare, con un mix di ironia e di impotenza, che la Corea del Sud ci è passata davanti? La sola Cina è al 21,7% (+7,6 punti) ponendosi così al primo posto. Che cosa dovrebbero dire, allora, gli americani?
Nelleconomia globalizzata, i Paesi di più antica industrializzazione sono stati in grado di resistere grazie alla capacità di esportare nelle aree del mondo che hanno continuato a crescere. Quanto alle linee di azione per il futuro, il rapporto fa giustizia di tanti luoghi comuni riguardanti le sfide dellapparato produttivo. Linnovazione non richiede una spiccata diversificazione produttiva (che anzi è rischiosa) ma può benissimo dispiegarsi allinterno dei prodotti tradizionali magari ampliandone la gamma. Relativamente al tema ricorrente della dimensione delle imprese, non ha senso lamentarsi di un tessuto costellato di milioni di aziende micro e piccole, ma è più opportuno avviare e ravvivare delle esperienze
Il problema dell’Italia non è la crecita industriale ma la stampa
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