ATTACCHI SPECULATIVI.La situazione dell’Italia non è molto dissimile da quella dei Pigs: è difficile che il Pil possa crescere a sufficienza per ridurre il rapporto con l’indebitamento.
Si moltiplicano le pressioni perché il Paese si doti di una strategia della crescita. Il Sole 24 Ore di ieri ha proposto un suo “manifesto” composto da nove impegni prioritari, sollecitando anche l’impegno dell’Unione europea, alla quale si chiede di usare gli eurobond per fini di sviluppo e non solo di stabilizzazione. Dopo tanti dinieghi ed esitazioni il rigore di bilancio è entrato nell’agenda politica di tutte le forze politiche, ma esse sono coscienti che può essere accettato dagli elettori se viene affiancato da una più vigorosa crescita, ma questa strada è irta di ostacoli.
Paolo Sylos Labini avvertì gli economisti italiani di non sottovalutare la loro influenza, talvolta nefasta, nelle scelte della politica. Una delle loro maggiori responsabilità è d’aver assecondato l’idea che la crescita del debito pubblico, che ebbe un’accelerazione con la crisi petrolifera degli anni 1970, fosse sostenibile. I pochi che si opposero vennero considerati “economisti neanderthalesi”. Quando negli anni 1990 il mercato internazionale si sostituì nel giudizio dei nostri economisti, indicando che il debito pubblico aveva raggiunto dimensioni pericolose, l’idea portata avanti fu che il riassorbimento potesse, alcuni dicono dovesse, avvenire con la “crescita del denominatore”, il Pil. Ciampi fu chiamato al vertice del Governo e, per la riconquistata fiducia, il dibattito si assopì. Proprio in questi giorni il mercato manda a dire chiaramente che il debito pubblico è divenuto insostenibile e si è aperta una breccia nella solidità del fronte culturale e, di riflesso, di quello politico; invero ciò accade con una certa malavoglia, dato che i più insistono nel dire che l’Italia non ha i problemi dei Pigs, mentre li ha eccome!, perché è difficile che il Pil possa crescere a sufficienza per abbattere il suo rapporto con il debito pubblico. I motivi sono stati evidenziati da studiosi stranieri e da pochi italiani: superato il 70%, il rapporto debito pubblico/Pil raggiunge il punto di non ritorno perché il taglio del deficit di bilancio, avvenga dal lato della spesa o da quello delle entrate, ha effetti deflazionistici e il costo dell’indebitamento si innalza, creando un circolo vizioso che stiamo toccando con mano. È forte la tentazione di passare a un’altra illusione dopo quella della sostenibilità, insistendo sul fatto che il riassorbimento degli eccessi di debito pubblico possa avvenire con la crescita.
Non vi è alternativa a quella di cedere il patrimonio pubblico, nazionale e locale. Queste proposte vengono talvolta avanzate come una grossa novità, ignorando che, come avvenne per la tesi della sostenibilità del debito, per tempo alcuni hanno prospettato inascoltati questa necessità, offrendo soluzioni ben articolate e percorribili in pratica. Maestro tra tutti un non economista, Giuseppe Guarino, seguito dai suoi allievi, come gli autori di questa nota a memoria. Ancora, tuttavia, le resistenze all’attuazione riemergono sotto forma della ricerca di una maggiore crescita e la decisione tarda a venire, giustificata da due obiezioni: il patrimonio alienabile presenta oggi valori troppo bassi e una parte rilevante dello stesso è in mano delle istituzioni locali. Per la prima obiezione la risposta è che siamo di fronte a uno stato di necessità e nessuna azienda in queste condizioni può sperare di trarre dalla cessione dei propri beni quello che otterrebbe se li avesse venduti al momento opportuno, con un mercato in crescita e la speculazione silente. Per la seconda non possiamo che ripetere ciò che avevamo già sostenuto in sede di attuazione del federalismo fiscale: esso avrebbe dovuto comportare un’attribuzione ai nuovi centri di responsabilità locale di una quota del debito pubblico centrale sulla base del reddito pro-capite, lasciando ovviamente la sua attivazione a momenti come quello che viviamo.
Questa è da noi considerata una soluzione second best, dato che ci dobbiamo sostituire all’Unione europea nel trovare una soluzione. Come insegnava un nostro maestro, Karl Brunner, il principale problema economico è di non avere squilibri, ma quando si hanno nasce un nuovo e più difficile problema da risolvere: come rientrare dagli stessi senza compromettere il sistema economico. La soluzione dell’assorbimento degli eccessi di debito pubblico non può essere affidata né alla deflazione, come si va facendo, né alla crescita; se l’Ue decidesse di fare le cose seriamente, invece di trascinare da una crisi all’altra i Paesi più esposti agli attacchi speculativi, mettendo in serie difficoltà l’euro, la soluzione sarebbe di collocare gli eccessi di debito pubblico in un fondo comune, il cui rimborso deve essere garantito in una delle forme conosciute e nei tempi accettati dal mercato. Solo questa impostazione porta a soluzioni concrete. Il resto, ci scusiamo con i colleghi, sono chiacchiere che ci tengono sull’orlo del baratro e costano all’Italia, già oggi, oltre tre punti di Pil, a causa degli spread prevalenti sui titoli di Stato, più gli aumenti dei tassi di interesse ufficiali che si attendono. In breve il costo di gestione del debito sarà pari a quello della manovra testé approvata dal Parlamento:4 punti di Pil. Ci sembra evidente che senza un’operazione straordinaria “patrimonio contro debito” l’Italia entrerà in agonia, i denari finanzieranno la crisi invece della sua soluzione, fino al botto finale. Ciò va detto con più forza e da più studiosi affinché la politica, ora in panico, capisca e decida di fare la cosa giusta.
Un fondo comune contro gli eccessi del debito
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