I contrasti nel governo. La manovra a pezzi. Le tensioni in Europa. Gli investitori globali minacciano di mollare l’Italia.E scatta l’allarme.
La testa ha lasciato il posto alla pancia. La mette così un banchiere nel bel mezzo della tempesta finanziaria. “Se si guarda ai dati di fondo dell’economia italiana”, spiega a “l’Espresso”, “non è cambiato nulla rispetto a prima. La testa ragiona sui “fondamentali”. E nessuna novità sostanziale avrebbe giustificato la pioggia di vendite sui titoli di Stato e sulle azioni italiane. Anzi: negli ultimi tempi abbiamo messo in cantiere una manovra da 40 miliardi per il bilancio pubblico e abbiamo completato con successo una ricapitalizzazione del sistema bancario da 10 miliardi”. Il grafico nella pagina di fianco lo conferma: tra tutti i Paesi presi in esame l’Italia è quello con meno “rosso” sugli indicatori di rischio utilizzati dal Fondo monetario internazionale. Con la ben nota eccezione del debito pubblico che è pari al 120 per cento del Pil. E che va rifinanziato mese dopo mese al costo più basso possibile per evitare un aggravio della spesa per interessi.
Quando questa minaccia incombe, oltre alla testa è importante la pancia. Che misura la fiducia. “E improvvisamente”, continua il banchiere, “mercoledì 6 luglio la pancia ha cominciato a borbottare che qualcosa in Italia non va più per il verso giusto. Soprattutto, che il ministro dell’Economia ha dei problemi: è sotto accusa nel governo da parte dei suoi colleghi ed è nei guai con la magistratura per l’inchiesta su Marco Milanese, il suo braccio destro. Fino all’attacco frontale che Silvio Berlusconi gli ha sferrato sulle colonne di “Repubblica” la mattina di venerdì 8 luglio. A quel punto Giulio Tremonti si sarebbe potuto o dovuto dimettere. E comunque è apparso chiaro che il ministro dell’Economia, giudicato dal mercato come l’unico tutore della tenuta dei conti pubblici, si era molto indebolito”.
E’ stata dunque la fiducia nella politica a venir meno: i mercati si sono spaventati e hanno temuto che il governo avesse perso il controllo della situazione. E’ partito da lì, dalla pancia, il crollo che ha fatto perdere valore ai titoli di Stato e alle azioni. Bastano pochi dati per avere un’idea del tracollo.
Lo spread tra i Btp italiani e i Bund tedeschi, che misura il rischio associato alle obbligazioni del Tesoro e che sale quando il loro valore di mercato scende, è passato dai 180 punti base (centesimi di punto percentuale) dell’inizio di luglio ai 348 toccati la mattina di martedì 12 luglio (salvo poi ridiscendere sotto quota 300 nel pomeriggio). Vuol dire che gli investitori chiedono quasi il 3,5 per cento in più per scegliere un titolo italiano invece di quello tedesco sebbene la valuta, l’euro, sia la stessa: quell’extra-rendimento costituisce il “premio” che compensa la possibilità di andare incontro alla mancata restituzione del debito. Le azioni delle banche hanno perso quasi il 18 per cento dall’inizio di luglio. L’indice di Borsa il 10,3 per cento.
Certo, il crack non sarebbe stato di queste dimensioni se non ci fossero state delle condizioni di contorno ideali. A cominciare dalle fibrillazioni dell’area dell’euro. Gli stati dell’Unione europea sono dovuti intervenire per salvare prima la Grecia, poi l’Irlanda e il Portogallo. Senza peraltro risolvere il problema, almeno nel caso di Atene. Dove, malgrado due prestiti dall’Europa e due manovre di bilancio che hanno innescato duri scontri tra la popolazione e le forze dell’ordine, il debito pubblico non è ancora sotto controllo. Tra gli operatori è diffuso il timore che la Grecia non riesca a finanziarsi e sia costretta a dichiarare il default (fallimento). Cioè non ripaghi i suoi debiti. E che dopo la Grecia altri Paesi facciano la stessa fine. Con seri rischi per la tenuta complessiva dell’euro.
“Ci sono governi del Nord Europa”, ammette un banchiere centrale dell’Euroarea, “che si comportano in modo irresponsabile solo per scopi elettorali interni”. Il riferimento è evidentemente all’Olanda e alla Finlandia, guidate da forze politiche populiste e nazionaliste di destra, che frenano qualsiasi decisione coraggiosa a favore della Grecia e degli altri Paesi in difficoltà. Ma anche la Germania e l’Austria non sembrano avere molta voglia di correre in soccorso dei cosiddetti Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), i Paesi più bersagliati dalla speculazione.
Già, perché quando si sente l’odore del sangue arrivano anche le locuste. Se sui mercati prevalgono le vendite è facile scommettere sulla discesa dei prezzi. E allora chi è a caccia di profitti cavalca l’onda: le tesorerie delle grandi banche internazionali e gli hedge fund, che dopo la crisi faticano a tornare agli utili pre-2008, si accodano, amplificando le perdite. Le agenzie di rating aggiungono il loro carico da 90. Impegnate a rifarsi una reputazione dopo i guasti del 2008, si muovono come elefanti in una cristalleria: fanno vedere che sono severe, picchiano duro e “muovono” il mercato, così qualcuno ci guadagna. E magari l’attenzione si distoglie da altri Paesi a rischio. Come gli Stati Uniti il cui debito pubblico ha raggiunto dimensioni record mentre Barack Obama e l’opposizione repubblicana non riescono a mettersi d’accordo su un piano di tagli. Con il rischio che all’inizio di agosto Washington non possa più far fronte agli impegni quando il debito raggiungerà un tetto fissato dalla legge.
Ma un conto è se i fuochi d’artificio riguardano Grecia, Irlanda e Portogallo, che tutte insieme fanno il 6 per cento del Prodotto interno lordo dell’Euroarea, un altro è se il contagio si estende fino a toccare la Spagna e, peggio ancora, l’Italia, terza economia della zona, con un debito pubblico pari al 24 per cento del totale. L’Europa non potrebbe permettersi un salvataggio di queste proporzioni. Si spiega così l’attivismo di Angela Merkel che lunedì 11 luglio è intervenuta di persona per cercare di rassicurare i mercati. La cancelliera tedesca, dopo aver parlato con Berlusconi, ha confermato l’impegno di tutti i Paesi a difesa dell’euro e ha sollecitato l’Italia ad approvare in tempi rapidi misure di bilancio giudicate convincenti. Mentre sui mercati si diffondevano voci non confermate di acquisti di titoli di Stato italiani da parte della Bce. Quasi a segnalare che i pompieri erano pronti a fare la loro parte.
E qui si arriva a un altro aspetto controverso della cronaca di questi giorni: la manovra. Il suo impianto generale e i singoli provvedimenti sono stati aspramente criticati: troppe tasse, alcune ingiustizie, pochi tagli di spesa (soprattutto ai costi della politica), troppi rinvii al 2013 e al 2014. Ma è stata presentata in anticipo e sulla carta garantisce un aggiustamento in linea con l’impegno di arrivare al pareggio di bilancio nel 2014. Il governo avrebbe dovuto sostenerla con convinzione. Un’accurata comunicazione avrebbe dovuto assicurare credibilità e trasparenza alla manovra, come aveva chiesto il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. E invece è stata lasciata in balia dei marosi. I numeri hanno ballato per giorni fino a stabilizzarsi sui 40 miliardi di cui 16 sono però affidati alla delega fiscale, ancora tutta da definire. Alcune misure (per esempio, il taglio degli incentivi alle energie rinnovabili) sono entrate e uscite dal testo diverse volte. Altre, come la norma salva-Fininvest, hanno creato inutili tensioni all’interno del governo e nel confronto con l’opposizione. Infine la conferenza stampa in cui sono stati illustrati i contenuti della manovra è stata ridotta a uno sketch umoristico dai poco bonari apprezzamenti che Tremonti ha riservato al collega Renato Brunetta.
Per non parlare del silenzio che è sceso sul decreto nel momento di massima tensione sui mercati quando l’unica preoccupazione del governo e della maggioranza è sembrata quella di commentare la sentenza della corte d’appello di Milano sul lodo Mondadori.”Il presidente del Consiglio”, dice il banchiere, “avrebbe dovuto correre in televisione, con al suo fianco il ministro dell’Economia, e dire solennemente: “Approveremo in fretta una manovra che azzera il deficit e stabilizza il debito nei tempi previsti”. Così si tranquillizzano i mercati. E invece l’impressione diffusa era che la compattezza del governo si stesse sgretolando e che si fosse indebolito l’unico punto fermo,cioè Tremonti”.
I ripetuti richiami del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, l’appello di Draghi all’assemblea dell’Abi, il comunicato di Berlusconi di martedì 12, il piglio di Tremonti (“Vado a chiudere il bilancio dell’Italia”), l’accordo con l’opposizione per un iter parlamentare celere del decreto, le promesse di rafforzamento della manovra hanno riportato un po’ di calma sui mercati. Ma è presto per dire che la nottata è passata. Il debito è sempre fermo lì, al 120 per cento del Pil. I tassi d’interesse sono in aumento per effetto delle decisioni della Banca centrale europea e per il maggior rischio associato all’Italia (i Bot sono stati collocati a un tasso superiore dell’1,5 per cento). Di ripresa non c’è traccia. In queste condizioni servirebbe almeno un governo.
Un Paese in balia dei mercati
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