L’assalto della speculazione. La debolezza del Paese. Banche, industria e sindacati, preoccupati dalla crisi creano un’inedita alleanza. Per dare il benservito a Berlusconi.
Per le banche non c’è nulla da fare quando i depositanti non si fidano più e scappano. Per un Paese è la stessa cosa. Una crisi di sfiducia nel nostro sistema come questa non si supera sperando nell’accordo sul debito Usa o aspettando che la Merkel convinca la sua coalizione sul salvataggio greco. Una crisi di sfiducia così grave va affontata con mezzi straordinari. Soprattutto perché a non aver fiducia nel Paese, adesso, sono gli stessi italiani”.
L’alto dirigente della banca centrale che interrompe le vacanze quando la galoppata dei tassi dei titoli di Stato ha superato il 6 per cento – marciando verso quel 7 che renderebbe il nostro debito insostenibile – e il differenziale con i Bund tedeschi brucia record su record (385 punti martedì 2 agosto), non lascia spazio all’ottimismo. L’illusione di ferie d’agosto garantite dalla manovra approvata in quattro e quattr’otto e dall’intesa europea sul Fondo salvastati si è già infranta. Sono tutti ai posti di combattimento, nelle banche centrali e non, molti sapendo di dover masticare adrenalina e impotenza: “Puoi stare al telefono a rassicurare i clienti ma poco altro”, confessa un money manager: “Questo è un mercato fatto da investitori istituzionali o per scalper, gli speculatori incalliti”. A suo modo una guerra, che vede come obiettivo il nostro debito sovrano, lanciata non si sa bene da chi: la finanza euroscettica che vuole affossare l’euro, la finanza filoamericana che vuole difendere il dollaro come valuta di riferimento, gli hedge fund a caccia di rendimenti.Ipotesi, trame, tutti e nessuno.
Eppure, se si va in cerca di un assassino, in questo thrilling di mezza estate, è meglio cercare dalle nostre parti, area Palazzo Chigi, dove Silvio Berlusconi e il suo governo non hanno convinto i mercati rinviando le medicine più amare al 2013-2014, cioè alla prossima legislatura, senza scalfire privilegi, attuare processi di riduzione della spesa, abbattere le corporazioni e aprire alla concorrenza. Perdendo anche l’ultimo briciolo di credibilità. E ricevendo la bocciatura degli investitori, che ha scatenato le scommesse sul nostro default neanche fossimo la Grecia. Ma, soprattutto, incassando il benservito più clamoroso che si potesse immaginare: quello della classe dirigente che lo ha sostenuto finora, stufa di vedere il Paese allo sbando e i propri denari bruciati. L’Appello alla crescita firmato, in un inedito rassemblement, da tutte le parti sociali – padronato e sindacato, dalla Cgil di Susanna Camusso alla Cisl di Raffaele Bonanni – ha infatti due protagonisti assoluti: la presidente della Confindustria Emma Marcegaglia, e quello dell’Abi, la potente lobby bancaria, Giuseppe Mussari. La quintessenza del capitalismo nazionale che chiede, senza tanti sottintesi, una forte discontinuità. Cioè: qualcun’altro al comando. Qualcuno che entri nella war room, e ci tiri fuori dall’accerchiamento.
Ma come si è potuto arrivare a questo punto, e quali scenari si aprono adesso? “Tutti vendono Italia, chi ha Btp in tasca se ne libera”, racconta disperato un banchiere. La fuga delle banche straniere dai bond del Tesoro – dalla Deutsche Bank che ha alleggerito il suo portafoglio tricolore del 90 per cento, ma anche Dexia e Commerzbank – era d’altra parte già in atto da mesi. Ora c’è anche il digiuno degli investitori italiani, che restano alla larga dalle emissioni, mentre il mercato consegna sul rischio Italia la peggiore delle previsioni: da un mese i tassi a lungo termine sono in crescita rispetto a quelli a breve. Più si allunga lo sguardo sulla solvibilità del Paese, più la fiducia traballa.
Sulla linea del fuoco si sono trovate per prime le banche. Un’ondata di vendite in Borsa le ha ridotte a dei bonsai (20 per cento in meno da inizio anno) che chiunque potrebbe portarsi via con poca fatica: secondo il “Financial Times”, le quotazioni attuali rispecchiano ormai solo il 60 per cento del loro patrimonio netto. In alcuni casi, valgono in Borsa meno degli immobili di loro proprietà. Punite proprio a causa dei loro portafogli gonfi di titoli del Tesoro, mentre il mercato ha ignorato tutti gli sforzi fatti per ricapitalizzarle e far loro superare il severo esame degli stress test. Fatica inutile. Eppure, che sul rischio contagio tra debito sovrano e banche ci fosse allarme rosso era ben noto ai governi europei. Un rapporto della Bri (la banca dei regolamenti internazionali) di fine giugno lo aveva messo in evidenza, consigliando di agire subito per ridurre l’eventuale impatto di crisi del debito sul sistema creditizio e sulla sua capacità di approvvigionamento. Ma in Italia nulla è successo. Così, nelle giornate in cui i Btp incominciavano a staccare pericolosamente i Bund, Bankitalia ha chiesto ai principali istituti nazionali se i flussi in entrata e in uscita ne garantissero la solvibilità. Monitoraggio di routine, ma che in questo momento assume un peso cruciale.
Di essere state maltrattate dai mercati, alle banche non è piaciuto affatto. Finché il feeling con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti garantiva al settore un certo riparo dalla concorrenza (e mano libera sui prezzi imposti ai clienti), le banche avevano accettato di buon grado anche di pagare pegno. Così, nell’ultima manovra non hanno protestato per l’aumento dell’Irap, e neanche per la nuova tassa imposta sul deposito titoli. Ma di essere loro a perdere la faccia per l’incapacità del governo di ridurre la spesa pubblica, è davvero troppo. Così Mussari ha rotto gli indugi ed è passato al fianco della Marcegaglia. La signora di Confindustria aveva già da tempo assunto un atteggiamento critico verso il governo, in un crescendo che ha visto il fronte industriale, berlusconiano nel Dna, prima liquidare il ministro dell’Economia con un editoriale del direttore del “Sole- 24Ore” sabato 30 luglio, poi bocciare aspramente la sua azione con un intervento del direttore generale Giampaolo Galli. Adesso, con le banche in prima fila, l’asse del dissenso è ancora più forte.
Ma il problema è: che cosa pretendono per la crescita i firmatari dell’appello, e quali sono gli spazi di manovra di questo governo? A sedare i mercati attizzati dall’odore della preda, non bastano certo il volontarismo di Berlusconi, le solite promesse, la sua capacità da imbonitore. Occorre lavorare su più fronti. L’ottovolante di questi giorni è in gran parte dovuto al fatto che gli scambi sono ridotti, è vero, e qualsiasi movimento di vendita ha un effetto amplificato. Ma ci sono anche i grandi fondi pensione giapponesi o americani, che con i titoli di Stato italiani tutelavano i rendimenti senza troppi patemi d’animo, e che invece ora sono assaliti dai dubbi e sono tentati di liberarsene: se lo facessero, sarebbe un Vajont; e ci sono quelli che vendono i nostri Btp o le nostre banche solo perché fanno un gioco al ribasso, vendere a nove per ricomprare a sei: nemmeno i paletti della Consob sulle operazioni allo scoperto possono frenarli. Per rassicurare i primi, e arginare i secondi, servirebbe una svolta decisa, un cambio di paradigma – così lo definiscono i suoi ideatori – che inizi con le riforme promesse e mai realizzate dal governo, ma che vada anche oltre: verso un patto tra ceti produttivi che condivida obiettivi e strumenti sul modello più virtuoso che c’è in Europa, quello della Germania. Modello che ciascuno vagheggia per l’aspetto che più gli è congeniale, naturalmente.
Ed è qui che rischia di cadere l’asino: sulle strade da percorrere per disegnare il paradigma manca visibilmente un’intesa. Sarà difficile, per esempio, che la Cgil possa essere d’accordo con lo smantellamento dell’articolo 18 sul licenziamento, su cui puntano invece Confindustria e Abi. Oppure che sulla patrimoniale, cara alla Camusso e a Giuliano Amato (ma non al Pd, che vorrebbe piuttosto la tassazione delle rendite finanziarie), imprese e banche si lascino convincere. Ma non importa. Quello che ora rileva, sul piano politico, è aver fatto fronte comune. Conquistandosi un ruolo da protagonisti-antagonisti che l’opposizione ha smesso persino di sognare.
A essere nell’impasse, intanto, è il governo. Ha garantito conti a posto, ha promesso niente tasse, si è vantato di avere uno scudo nel risparmio degli italiani: tutti argomenti franati come un castello di carte. Ora, non gli resta che fare ciò che i mercati chiedono: anticipare gli effetti della manovra. E magari ricorrere a una medicina ancora più amara: per esempio, ripristinare l’Ici sulla prima casa. Ma non è nemmeno detto che Berlusconi riesca a salvarsi come il Barone di Münchhausen, che uscì dalle sabbie mobili tirandosi da solo per i capelli. Per abbassare la temperatura dei mercati l’arma decisiva sarebbe l’intervento dell’Efsf, il fondo salvastati sui cui poteri e mezzi l’Europa ha trovato un’intesa il 21 luglio. Ha munizioni non sufficienti (500 miliardi, servirebbe il quadruplo per farsi rispettare dai mercati), ma con la possibilità di acquistare titoli di Stato potrebbe mettere la museruola alla speculazione. Peccato che al Tesoro non lo vedano attivo prima della fine dell’anno. Chissà se fino ad allora l’ossigeno basterà.
Operazione anti-Berlusconi
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