• mercoledì , 27 Novembre 2024

Pensioni, nell’Italia delle corporazioni, il governo si è mostrato debole

Non è certo un bel vedere (e neppure un bel sentire) che un presidente del Consiglio (ancorchè adirato per motivi comprensibili) usi per definire il suo Paese la parola che, a Waterloo, ha dato l’immortalità al generale Cambronne. Eppure, qualche volta succedono fatti che lasciano sconcertati e che ci inducono a pensare che l’Italia, nonostante le sue grandi qualità, sia irrecuperabile perché in balia di lobby voraci, di corporazioni di ogni tipo, che, per di più, non hanno il coraggio di dichiarare che loro difendono i propri interessi e, del resto, non gliene può fregar di meno; ma esibiscono la faccia tosta di chi pretende di comportarsi da iene e da sciacalli pur sbandierando la sacrosanta difesa di diritti fondamentali.
Prendiamo ad esempio l’ultima storiaccia italiana che ha visto il Governo compiere un passo falso, tanto da vedere travolgere una proposta – non insensata – nel giro di poche ore. Parliamo – i lettori lo avranno capito – dell’idea, emersa nel vertice di Arcore, di sottrarre i periodi di contribuzione corrispondenti al riscatto (oneroso ancorchè a prezzi convenienti) della laurea e dei corsi di specializzazione e al servizio militare (sottoposto a contribuzione figurativa gratuita), limitatamente al canale per cui è possibile andare in pensione di anzianità, al momento della maturazione del diritto, con 40 anni di contribuzione a prescindere dall’età anagrafica. La misura scaturita, ad avviso di chi scrive, era opportuna ed utile perché tale tipologia di pensionamento è divenuto la via di uscita più rapida dal mercato del lavoro, dal momento che quanti in passato hanno cominciato a lavorare in giovane età possono maturare il requisito dei quarant’anni prima del limite dei 61 anni a regime (quanto è richiesto per i dipendenti dal sistema delle quote e dell’età minima) e ancor più dell’età prevista per la vecchiaia.
In sostanza, il canale dei 40 anni è diventato, quindi, un modo per eludere l’incremento del requisito anagrafico quale misura coerente con l’allungamento dei trend demografici. Basti pensare che nel 2010 l’età media alla decorrenza delle pensioni di anzianità Inps è stata di poco superiore a 58 anni per i dipendenti e a 59 anni per gli autonomi. Intervenendo per ridurre l’anzianità contributiva (togliendo dal computo il riscatto e la naia) sarebbe stato possibile anche elevare indirettamente l’età del pensionamento.
Di quanto sarebbe pesata, in concreto, questa elevazione ? Le corporazioni, spalleggiate dalla stampa, hanno parlato di anni: tutti quelli corrispondenti al riscatto della laurea (e del servizio militare). In verità, l’allungamento sarebbe stato molto inferiore perché nella generalità dei casi, dopo qualche tempo ai soggetti interessati sarebbe divenuto possibile maturare i requisiti anagrafici per accedere al pensionamento di anzianità nel sistema delle quote e dell’età minima.
Ma il Governo non è stato in grado di spiegare tutto ciò e ha preferito la resa. Per ora il problema delle pensioni è escluso dalla supermanovra. Vale però la pena di far notare comportamenti non proprio lineari che si sono manifestati in questa vicenda, da parte delle potentissime consorterie dei magistrati e dei medici, le prime ad essere salite sulle barricate. Lo facciamo raccontando una storia vera, nel senso che è verificabile nelle norme di legge e negli atti parlamentari. Nel 2008 il Governo decise di ridurre il numero dei pubblici dipendenti mediante la loro “rottamazione” limitatamente ad un periodo di tre anni. Le amministrazioni potevano “pensionare” i dipendenti, dopo un preavviso di 6 mesi, al raggiungimento dei 40 anni di servizio (e di contribuzione di ogni tipo e natura). La cosa suscitò polemiche, produsse un contenzioso giuridico che terminò solo dopo alcuni tempi e qualche norma di interpretazione autentica. Furono esclusi da tale facoltà delle amministrazioni i professori universitari (a cui tuttavia venne preclusa sostanzialmente la possibilità di allungare di due anni la permanenza al lavoro), i primari e i magistrati. I medici e i dirigenti del Servizio sanitario nazionale chiesero di essere uniformati al trattamento dei primari. Dopo alterne vicende, ciò avvenne, in pratica, nel “collegato lavoro”, dove fu concesso ai medici e agli altri dirigenti di chiedere all’amministrazione di riferimento di rimanere in servizio fino al compimento dei 40 anni effettivi (ovvero computati senza il riscatto) fino ad un massimo di 70 anno di età. Il contrario di quello che le organizzazioni dei medici hanno chiesto nei giorni scorsi.
In conclusione, i camici bianchi (e affini) pretendono di servirsi del riscatto della laurea con la cucitura lampo. Se serve per andare in quiescenza prima e magari andare a lavorare nel privato il riscatto va difeso come la linea del Piave. Se invece è l’amministrazione che vuole risolvere il rapporto, è permesso al medico di chiedere ed ottenere che del riscatto non si parli neppure. Questa è l’Italia dei diritti!

Fonte: Occidentale del 4 settembre 2011

Articoli dell'autore

Commenti disabilitati.