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Sarà un pianeta di disoccupati

Per far fronte all’aumento della popolazione, all’abbandono delle campagne e all’incremento della domanda di lavori retribuiti da parte delle donne, il mondo nei prossimi anni avrà bisogno di 1,5 miliardi di nuovi posti; non posti qualsiasi, ma decent jobs, come li definisce l’Organizzazione internazionale del lavoro. La previsione, al 2050, è del demografo Antonio Golini, che dà anche un’idea delle dimensioni di questa scommessa: oggi nell’intero ricco Nord del mondo gli occupati non superano i 550 – 600 milioni.
Il 2050 è ancora lontano, ma la proiezione ci dà un’idea dell’andamento dell’offerta di lavoro a livello globale. Già oggi l’Economist stima che i disoccupati nel mondo siano 205 milioni, una cifra che probabilmente andrebbe raddoppiata se si contano anche i lavoratori part time che vorrebbero lavorare a tempo pieno, gli scoraggiati che il lavoro non lo cercano più e tutti i dipendenti che le statistiche dei vari Paesi registrano ancora come occupati, ma che in realtà ricevono forme di sussidi come la cassa integrazione.
Attraverso i meccanismi della globalizzazione, questa grande offerta di lavoro a buon mercato spiazza i lavoratori dei paesi industrializzati. Nei 34 paesi dell’Ocse i disoccupati a luglio erano 44,5 milioni. Esiste ancora la capacità di creare posti di lavoro nelle grandi economie del Nord, ma il premio Nobel Michael Spence calcola che il 98% dei 27 milioni di nuovi posti negli Stati Uniti tra il 1990 e il 2008 sono stati creati in settori non sottoposti alla concorrenza internazionale.
Forse però il sistema produttivo globale non ha bisogno di tutta la manodopera disponibile e questo dubbio dà consistenza al fantasma della cosiddetta “disoccupazione strutturale”. Anche considerando il grandissimo aumento della domanda di beni che sarà indotto dall’affacciarsi a nuovi consumi da parte di almeno altri due miliardi di persone (ammesso che le risorse del mondo siano in grado di fronteggiarla senza un collasso ambientale, ma questo è un altro discorso), è possibile che le nuove tecnologie consentano di assicurare beni e servizi in dimensione adeguata con una quantità sempre minore di manodopera. L’effetto, che sta già avvenendo, è una crescente polarizzazione del mercato del lavoro. Da una parte chi sa dominare queste tecnologie: manager, tecnici, finanzieri sempre più richiesti dal mercato e che guadagnano sempre di più. Dall’altra la bassa forza, che offre capacità di lavoro sempre più svalutata e che rischia di andare a ingrossare le fila dei nuovi poveri.
I più colpiti sono i giovani, come sottolinea il rapporto dell’Ocse diffuso oggi. Nei Paesi più industrializzati, il 12,6% dei giovani tra i 15 e i 24 anni sono Neet, Not in education, employment or training. Non studiano, non si formano, non lavorano. In Italia i cosiddetti Neet tra i 15 e i 29 anni sono 2,1 milioni. Per questi giovani, l’Ocse parla di “cicatrici” (“scarring effects”): difficoltà persistenti nel trovare un posto di lavoro, differenziali retributivi svantaggiosi che rimarranno nel tempo. Per non parlare degli effetti dell’incertezza sulla possibilità di crearsi una famiglia, del senso di frustrazione che si ripercuote sulla capacità di lavoro, delle pensioni inadeguate che si stanno preparando.
L’Ocse ha fatto un grande sforzo per raccogliere le best practice dei Paesi membri per migliorare le possibilità di lavoro dei giovani: modifiche dei percorsi scolastici, formazione, programmi per favorirne l’assunzione e per limitare gradualmente la precarietà una volta conquistato il posto di lavoro. Resta però un dubbio. Se l’effetto combinato dell’aumento tendenziale dell’offerta di lavoro e della diminuzione della domanda indotta dall’evoluzione tecnologica si traduce in disoccupazione e aggravio degli squilibri sociali, che cosa dobbiamo fare perché le nostre società non esplodano? La pressione sui governi perché in qualche modo ridistribuiscano le risorse che il sistema economico non riesce più a far arrivare agli emarginati dal mondo del lavoro inevitabilmente cresce. Significa promuovere iniziative pubbliche, incentivare quelle private, ridistribuire risorse dai ricchi ai poveri. Tutte cose difficili, con questi chiari di luna. Ma forse indispensabili, come sembra aver capito Barack Obama che sembra intenzionato a giocarsi la rielezione sul suo piano per l’occupazione da 447 miliardi di dollari.

Fonte: Finanza e Mercati del 16 settembre 2011

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