Ecco tutte le riforme che avrebbero salvato l’Italia dalla retrocessione in serie B. E adesso tutti gli italiani pagheranno il conto.
Un decennio perduto. Come quello del Giappone che tra il 1990 e il 2000 ha vissuto una prolungata fase di stagnazione economica. L’Italia berlusconiana sarà ricordata così nei libri di storia e nelle statistiche economiche: dieci anni sprecati per la crescita, l’occupazione, l’aggiustamento dei conti pubblici, la costruzione di infrastrutture, il rafforzamento del sistema industriale. La “rivoluzione liberale” non c’è stata. E pazienza. Ma tra il 2001 e il 2011 è mancata la capacità di gestire l’economia sebbene la maggioranza avesse i numeri per imporre la sua volontà e il centrodestra abbia potuto governare a lungo per gli standard italiani: due intere legislature (se l’attuale arriverà alla scadenza naturale), con la sciagurata pausa del governo dell’Unione di Romano Prodi nel 2006-07.
In realtà la stabilità politica era ed è solo apparente. E non si è tradotta in fatti concreti. Gli avvertimenti si sono sprecati: organismi internazionali, agenzie di rating, Banca d’Italia ed economisti di varia formazione hanno spronato il governo a fare di più, a sfidare le corporazioni che bloccano lo sviluppo dell’economia italiana.
Ma le esortazioni non sono bastate. E l’immobilismo è prevalso. Se ne sono accorti gli investitori che questa estate, nell’ansia di trovare approdi sicuri per i loro capitali, hanno “scaricato” i titoli di Stato italiani. Con il risultato di far decollare i rendimenti e di costringere la Banca centrale europea (Bce) ad acquistare Btp per evitare che l’intera costruzione dell’euro saltasse per aria.
Spaventato dalla sanzione dei mercati il governo ha reagito con una manovra pesante: 54 miliardi, a regime nel 2013, che dovrebbero avvicinare il bilancio pubblico al pareggio. Ma c’è arrivato in modo confuso e pasticciato. Tanto che il miglioramento in termini di tassi d’interesse è stato modesto, quasi impercettibile. Mentre l’euro si avvicina al collasso a causa della Grecia. E così le preoccupazioni per un’economia ferma sono riprese.
La crescita che non c’è più
Se il Prodotto interno lordo (Pil) aumenta, tutto è più semplice: la gente trova lavoro, lo Stato incassa più tasse e spende meno in sussidi, le famiglie consumano di più, le imprese investono. Tra il 2001 e il 2010 il Pil italiano è aumentato poco o nulla (vedere grafico), perché le piccole variazioni all’insù sono state compensate dal tonfo all’ingiù del 2008 e soprattutto del 2009. “Secondo i nostri calcoli”, osserva Luca Paolazzi, direttore del Centro studi della Confindustria, “il Pil pro capite italiano nel 2012 sarà uguale a quello del 1999 e inferiore del 7 per cento a quello del 2007. Ed è significativo il confronto con la media dell’Unione europea: mentre nel 1991 il Pil pro capite italiano era il 106 per cento, nel 2007 era il 99 per cento e nel 2012 scenderà al 93 per cento”.
Perché l’Italia non cresce? L’elenco dei motivi è lunghissimo: tasse elevate, tanta burocrazia, poca ricerca, molta corruzione, malavita diffusa. In un recente studio (Global innovation index) predisposto dall’Insead, una prestigiosa scuola di management francese, l’Italia si colloca al 35esimo posto su 129 Paesi nella classifica compilata in base a una serie di indicatori che misurano l’idoneità dell’ambiente all’innovazione e allo sviluppo economico. Non c’è da stupirsi, quindi, che gli stranieri investano poco da noi. Lo ricorda anche Standard & Poor’s nel rapporto con cui ha spiegato il declassamento dell’Italia: gli investimenti diretti esteri in Italia sono solo il 16 per cento del Pil contro il 43 della Spagna, il 36 della Francia e il 27 della Germania. “E questo è un problema serio per l’Italia”, dice sempre Romano Prodi quando parla da economista industriale, “perché il progresso va avanti con gli investimenti incrociati”.
Non è un Paese per giovani.
Nell’Italia che non cresce trovare lavoro è sempre più difficile. Soprattutto per i giovani. Dalle statistiche risulta che il tasso di disoccupazione non è alto, anzi è più basso che in molti altri Paesi europei. E’ un dato positivo, non c’è dubbio, ma è anche parzialmente fuorviante. Quello che conta per misurare quanto la gente ha accesso al mercato del lavoro è il tasso di occupazione. Ovvero il rapporto tra occupati e popolazione. Nella classe di età che va dai 15 ai 64 anni il tasso di occupazione è sceso dal 57,4 per cento del 2004 al 56,9 del 2010. E’ migliorato per le femmine (da 45,2 a 46,1 per cento) ed è peggiorato per i maschi (da 69,7 a 67,7 per cento). Vuol dire che è cresciuto il numero delle persone che hanno perso il posto o che hanno rinunciato a cercare un lavoro. Proprio quando uno dei principali obiettivi della politica economica era un maggior coinvolgimento della popolazione nella fase produttiva.
Le statistiche diventano impressionanti quando si guarda ai giovani. Il tasso di occupazione per i ragazzi che hanno dai 15 ai 24 anni è sceso in Italia a poco più del 20 per cento mentre è superiore al 45 per cento, per esempio, in Germania. Non solo: in quella fascia di età è molto più alta la percentuale dei disoccupati e in particolare di quelli che sono senza lavoro da più di 12 mesi. Senza contare che tra gli occupati aumenta il numero dei lavoratori con contratti a tempo determinato, mal pagati e con prospettive precarie.
I conti in sicurezza
Dopo il quasi-crack del 1992 e dopo il faticoso ingresso nell’euro (l’Italia ottenne una speciale esenzione sul limite del 60 per cento per il rapporto tra debito pubblico e Pil) il governo avrebbe dovuto dedicare il massimo sforzo all’aggiustamento del bilancio e alla riduzione del debito. Ma, nonostante i proclami, i risultati non sono arrivati. E’ vero che il “contesto” non ha aiutato il governo. In particolare la crisi finanziaria del 2008 e la recessione del 2009 hanno peggiorato le condizioni delle finanze pubbliche. In generale, però, il governo, nel suo decennio perduto, non è riuscito a contenere la spesa e nemmeno a ridurre la pressione fiscale, come Silvio Berlusconi e il suo ministro Giulio Tremonti hanno promesso a più riprese. Anzi, nella manovra di agosto sono stati costretti a puntare sulle tasse per far tornare i conti. Adottando molte delle misure suggerite dal vituperato predecessore di Tremonti, Vincenzo Visco.
Alla fine la pressione fiscale raggiungerà il 44,5 per cento del Pil nel 2013 dopo aver toccato un minimo del 40,4 per cento nel 2005. Il totale delle entrate salirà al 48,7 per cento dal 43,8 del 2005. Le promesse di aliquote più basse sono state archiviate sull’onda dell’emergenza ma soprattutto per l’incapacità di incidere sulla spesa che continua ad aumentare. E il debito, che tanto spaventa gli investitori, si è tutt’altro che stabilizzato: era sceso fino al 103,8 per cento del Pil nel 2004 ma è risalito al 119 per cento nel 2010. Nei prossimi anni il rapporto dovrebbe scendere di nuovo grazie alla manovra di agosto ma ci sono almeno tre incognite che pesano sugli obiettivi annunciati: la crescita è più bassa del previsto; la spesa per interessi rischia, se i mercati non cambiano intonazione, di esplodere; una crisi di governo mette a repentaglio il completamento dei provvedimenti contenuti nella manovra.
Investire nel futuro
Un governo che ha un progetto investe. In Italia l’incidenza della spesa per investimenti pubblici sul Pil è stata pari al 2,3 per cento in media tra il 2000 e il 2009 per poi scendere al 2,1 per cento nel 2010. Nel tentativo di fermare la spesa il governo ha tirato il freno sulla costruzione di strade, ferrovie, porti. Quelle infrastrutture che erano uno dei cinque capisaldi del famoso contratto con gli italiani di Berlusconi nel 2001. Il Ponte sullo Stretto è servito a riempire pagine di giornale ma resta fermo alla fase progettuale.
Non hanno avuto miglior fortuna il piano per l’energia e quello per le telecomunicazioni. La costruzione di nuove centrali nucleari è finita in archivio con il referendum dopo l’incidente all’impianto giapponese di Fukushima. L’alternativa è ancora tutta da inventare. Quanto alla banda larga, che ancora non raggiunge buona parte del territorio nazionale, i fondi necessari vanno e vengono in continuazione. E il governo, frenato dalle gelosie degli operatori del settore, non ha mai avuto la forza di imporre un piano per la realizzazione di una super-banda larga.
Infine la Fiat
“Ci hanno dato quello che ci serviva”, ha detto Sergio Marchionne, commentando la manovra di agosto. Che con l’articolo 8 permette di derogare all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Peccato che la Confindustria, soddisfatta dell’intesa sulle relazioni industriali raggiunta con i tre sindacati alla fine di giugno, e Cgil, Cisl e Uil, per la prima volta dopo molto tempo uniti, si siano imbufaliti.
I dieci anni sprecati da B.
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