Le motivazioni con le quali Sergio Marchionne ha annunciato, con un certo clamore, di voler uscire dalla Confindustria sono comprensibili. La competizione globale non fa sconti a nessuno e vendere automobili nelle settimane in cui i mercati si muovono con l’incubo del double dip , della doppia recessione, è un autentico mal di testa. Il manager che guida la Fiat teme che quelle che sono le difficoltà del suo progetto, legate al dispiegarsi dell’avventura americana e all’attesa dei nuovi modelli, vengano acuite da un contenzioso giuridico-sindacale fitto di cause e di ricorsi che giudica insostenibile. Ma riconosciuto a Sergio quel che è di Sergio, va detto che la divisione del fronte imprenditoriale è un errore. Non è il momento. Viviamo una fase delicata della storia nazionale, da due mesi scrutiamo con angoscia l’andamento dello spread tra i nostri titoli e i bund tedeschi, la Bce ci ha scritto una lettera alla quale nessuno ha risposto, la politica attraversa uno dei momenti più bassi della sua credibilità, il governo un giorno annuncia provvedimenti per la crescita e il giorno dopo se li dimentica, le imprese si trovano a far fronte a un serissimo rischio di stretta creditizia che rischia di pregiudicare gli investimenti dei prossimi dieci anni.
Di fronte a quest’agenda la logica vorrebbe che il mondo delle imprese unisse i suoi sforzi, rinunciasse ai personalismi, spingesse nella stessa direzione. Non per creare un partito dei padroni destinato inevitabilmente a creare ulteriori equivoci e ad alimentare nuovi conflitti di interesse bensì per fornire al Paese un modello di coerenza nella risoluzione dei problemi. Il Manifesto delle imprese sostenuto dalle organizzazioni dell’industria, del commercio, dell’artigianato, della cooperazione e del credito è stato – con l’unica eccezione della proposta di istituire la patrimoniale – un piccolo contributo in questa direzione e ha indicato la strada giusta. L’economia deve custodire gelosamente la sua autonomia dalla politica.
Ciò che divide Marchionne da Emma Marcegaglia è una querelle attorno agli effetti dell’accordo del 28 giugno che onestamente si fa qualche fatica a comprendere. Da ambo le parti ci sono pareri di eccellenti giuristi ma la distanza tra le interpretazioni non giustifica una guerra. Anche perché altre multinazionali, che operano in Italia in settori altrettanto aperti alla concorrenza come l’auto, hanno concluso in questi mesi accordi sindacali innovativi, in qualche caso senza un’ora di sciopero. Le relazioni industriali vanno sicuramente modernizzate, fortunatamente però non siamo all’anno zero.
L’uscita della Fiat dalla Confindustria, al di là delle differenti opinioni che hanno in materia sindacale, costituisce sicuramente un trauma per l’associazione. Gli industriali di Bergamo ieri sera mentre ascoltavano il duro intervento della Marcegaglia versus Marchionne trattenevano a stento il loro stupore, toni così decisi contro Torino non se li sarebbero mai aspettati. Per non deludere la base e demotivarla la Confindustria, con o senza Fiat, ha una sola carta da giocare: avviare una radicale autoriforma. Del resto nell’epoca del budget zero e della crescita senza spesa pubblica la pratica del lobbismo per ottenere leggine e incentivi andrà in fuorigioco. Il focus della rappresentanza tenderà ad avvicinarsi ai territori e le imprese per sborsare 10 mila euro l’anno vorranno servizi più qualificati e moderni. Emma Marcegaglia questa riforma aveva promesso di avviarla, toccherà al suo successore realizzarla davvero.
Una dannosa separazione
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