Le agenzie di rating valutano l’affidabilità di un debitore. Formano un oligopolio a volte collusivo. E sono tra le maggiori responsabili della crisi finanziaria. Diedero, tanto per fare un esempio, la tripla A, il massimo dei voti, a Lehman Brothers poco prima del suo fallimento. Ma, piaccia o no, chi investe non può non tenere conto del loro giudizio. Specie se rischia i soldi di altri. Dunque, inutile polemizzare, inventarsi complotti, dare la colpa ai media, se anche Moody’s, dopo Standard and Poor’s, ha declassato il nostro debito. La bocciatura era prevista. Arriva solo con un mese di ritardo. Non era però immaginabile l’ampiezza della retrocessione. Tre gradini bruciano. Ci avvicinano pericolosamente alla Grecia.
Il Paese che lavora, risparmia, produce non merita questo trattamento. Gli hedge fund , i fondi speculativi, non hanno cuore. Sono spietati con chi si mostra debole. Ma noi non lo siamo, potremmo obiettare, abbiamo dopotutto la seconda industria manifatturiera d’Europa. Sì, il debito sfiora i 2.000 miliardi, più o meno il valore del patrimonio pubblico, ma la ricchezza netta privata è quattro volte tanto. Perché i mercati se la prendono con noi e non più, per esempio, con la Spagna, che ha uno spread – la differenza fra rendimenti dei propri titoli di Stato e quelli tedeschi – inferiore al nostro? Eppure la nostra ricchezza pro capite è quasi il triplo di quella iberica. Il debito è il doppio, ma il deficit circa la metà. Perché? La risposta è lapidaria. Non siamo né credibili, né seri. Nessuno più investe in Italia e chi ci presta soldi vuole tassi usurari. La nostra immagine è a pezzi. Chi lavora con l’estero prova una profonda umiliazione, cui si accompagna un sempre crescente moto d’ingiustizia, per come viene trattato il nostro Paese.
Noi ci sforziamo di pensare che un sussulto di dignità, uno scatto d’orgoglio siano ancora possibili. Anche dall’attuale maggioranza. La manovra annunciata e smentita più volte in agosto è stata varata, alla fine, e vale 58 miliardi. Ma è insufficiente. La lettera della Bce al governo italiano, pubblicata dal Corriere , è rimasta in gran parte inascoltata, al punto che nei giorni scorsi, a Francoforte, si è persino pensato di mandarne un’altra. Ha diviso in profondità anche l’opposizione. E i mercati guardano avanti, perplessi. Riforme vere, privatizzazioni e liberalizzazioni, rimangono sulla carta. Siamo stati capaci di aumentare le tasse, ma la spesa pubblica (800 miliardi) prosegue la sua corsa. Abbiamo annunciato che avremmo abolito le Province: non era vero. Tagliato i costi della politica: una presa in giro. La nomina più delicata, quella del governatore della Banca d’Italia, è finita mestamente nel tritacarne delle liti di maggioranza. Il premier mostra di occuparsi solo delle sue questioni personali. E, infatti, oggi di che cosa discute la Camera dopo aver votato in diretta televisiva (ci vedono anche all’estero) sulle inchieste Papa, Milanese e Romano? Delle questioni contenute nella lettera della Bce? No, delle intercettazioni. Bossi non appare, anche agli stranieri, nel pieno delle sue facoltà. Non c’è membro del governo o della maggioranza che non affermi in privato che Berlusconi debba lasciare. Su questo giornale abbiamo suggerito al premier di fare come è accaduto in Spagna: annunciare che non si ricandiderà, chiedere le elezioni e non trascinare con sé l’intero centrodestra. Nessuna risposta.
Il sipario strappato
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