Siamo appesi da almeno otto settimane all’ altalena dei mercati finanziari e stiamo dimenticando cosa avviene nel frattempo nel Paese reale? È questa la prima domanda che viene spontanea come reazione – anche autocritica – alla tragedia di Barletta. Alla scoperta che, nell’ Italia delle élite che si accapigliano un giorno per l’ interpretazione dell’ articolo 8 e quello dopo per l’ articolo 18, esistono sacche di schiavitù contrabbandata per lavoro. Le quattro operaie morte in Puglia lavoravano senza contratto e in condizioni di sicurezza zero per 14 ore al giorno, pagate meno di 4 euro l’ ora. Grosso modo la metà del minimo contrattuale. Ma dov’ erano le autorità che avrebbero dovuto controllare? In Puglia non mi risulta che ci sia al potere un pugno di spietati thatcheriani! Che si possa lavorare in quelle condizioni nel nostro Paese è uno schiaffo per la tradizione sindacale e laburista, per i nostri Primo Maggio e per le centinaia di convegni, con buffet, sulla responsabilità-sociale-delle-imprese e/o il-futuro-delle-relazioni-industriali. Il laboratorio di maglieria franato faceva parte dell’ ampio mondo della subfornitura, una propaggine del distretto tessile a nord di Bari. La piccola impresa pugliese ha reagito alla Grande Crisi come ha potuto ma sta pagando duramente gli errori del passato quando il lavoro c’ era e le idee no. Se non si riesce a creare un marchio, a salire nella qualità delle produzioni, a unire i destini dei Piccoli in una rete di imprese, si rimane per tutta la vita fasonisti o cappottari e si finisce per ricorrere al dumping sociale pur di non chiudere bottega. Non possiamo però archiviare Barletta solo come la storia di un territorio che non ha sprigionato innovazione, saremmo terribilmente ingiusti nei confronti delle vittime e assolutori verso chi non ha mosso un dito per impedire l’ illegalità e si è girato dall’ altra parte. La verità è che la tragedia pugliese reca anche il segno di un Paese che si sta pericolosamente adattando al ribasso. Che sta raschiando il fondo del barile. Nella scala della competizione globale in alto ci sono sicuramente i nostri prestigiosi brand del lusso ma in basso la grande pancia delle micro-imprese è sottoposta a un sommovimento tellurico. E per resistere scende metaforicamente di uno o due piani, scommette di nuovo sul sommerso. Così rinuncia alla sicurezza dei laboratori, evade tutte le norme possibili, sfrutta il lavoro oltre ogni principio di civiltà. Ma non è certo questo il futuro che ci meritiamo.
Fonte: Corriere della Sera del 6 ottobre 2010Le macerie e le storie di un Paese dimenticato
L'autore: Dario Di Vico
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