Presto o tardi saremo chiamati a riflettere sulla nostra (compromessa) immagine nel mondo. La bufera finanziaria iniziata in luglio, oltre a mettere a nudo i vizi di finanza pubblica e l’ irresolutezza della dirigenza politica, ha portato con sé un declassamento del marchio Italia. Solo qualche anno fa ci eravamo illusi di poter tornare nella prima fila del ranking europeo e invece siamo riprecipitati in zona retrocessione. E i media continentali, sia quelli di grido sia i tabloid popolari, si sentono oggi autorizzati a calpestare orgoglio e sentimento nazionale des Italiens. Una larga parte dell’ opinione pubblica interna è convinta che la colpa di tutto ciò sia del nostro presidente del Consiglio, delle scelte errate di politica economica, della condotta privata e dei suoi atteggiamenti istrionici nei summit internazionali. Questa parte del Paese è tanto convinta di ciò che in qualche occasione si è spinta a tifare contro, come quei tifosi che sperano la loro squadra perda pur di procedere al cambio dell’ allenatore inviso. Ma “Forza Spread” non è uno slogan lungimirante, non si può salutare l’ ampliamento del differenziale Btp-bund come fosse una vittoria del popolo viola. A motivare la voragine c’ è sicuramente il drastico giudizio espresso dall’ Europa-che-conta verso il premier ma ci sono anche le riforme mai fatte e una modernizzazione incompiuta. E’ tanto tempo che non facciamo i compiti. Da dove si può ricominciare a ricostruire il prestigio internazionale? Innanzitutto da una considerazione: l’ Italia è un Paese che nell’ aprirsi al mondo ha quasi sempre saputo trovare un suo ruolo, non saremmo stati i leader del globo ma capaci di influenzare il costume e lo stile delle élite mondiali lo siamo stati. Quante volte durante un viaggio di lavoro/piacere ci è capitato di rintracciare i segni dell’ influenza italiana, la forza del nostro soft power, laddove non ce lo saremmo mai aspettati? È il segno tangibile che l’ identità italiana non è stata azzerata dall’ apertura, non è naufragata dentro la globalizzazione e la dimostrazione materiale di questa capacità di resistenza (o se preferite di adattamento) sta nei successi del nostro export. Non solo i mostri sacri della moda ma anche le piccole imprese dei distretti continuano a battersi ad armi pari con i tedeschi nonostante il governo, per un regolamento di conti tra sub-correnti del Pdl, abbia cancellato da un giorno all’ altro l’ Istituto per il commercio estero. Un Paese che è stato deriso dai capi del direttorio franco-tedesco può consolarsi solo con il fascino dei suoi vestiti, con le virtù del parmigiano e del prosciutto o anche con la qualità dei robot che produce? La forza dell’ export è una condizione necessaria ma certo insufficiente. Per ripartire dovremo finirla di apparire europeisti ad intermittenza ed evitare di teorizzare improbabili assi di politica estera con i Gheddafi e i Putin di turno. Ma dovremo anche impedire che i nostri consiglieri regionali – ben retribuiti – perdano del buon tempo a discutere quante ore di dialetto insegnare a scuola, dovremo smetterla di modificare persino i cartelli della toponomastica per compiacere una forza politica. Sarà prioritario invece combattere la scarsa conoscenza delle lingue straniere, vero nostro tallone d’ Achille, e magari ragionare sui paradossi in virtù del quale i ragazzi alle medie ne studiano due e al liceo una sola. Che senso ha poi continuare a contrapporre la forza delle nostre comunità territoriali alle (poche) élite cosmopolite di cui siamo dotati? Un giovane avvocato di Bergamo che con i propri mezzi si è affermato a Shanghai può fare molto, moltissimo per le aziende del sua terra d’ origine. Nel ridisegnare la nostra immagine un passaggio decisivo sarà rappresentato proprio dai flussi di progetti e di informazioni che riusciremo a costruire con le comunità degli espatriati. I nostri manager all’ estero, i nostri ricercatori, i nostri artisti sono una miniera largamente inesplorata e il loro contributo può essere decisivo. Insegneranno così ai nostri figli che si può lasciare un Paese e poi tornarvi, che si può andare in giro a conoscere il mondo e a studiare e poi travasare quelle esperienze nelle imprese, nelle università e nell’ amministrazione delle città che li hanno visti nascere. Il viaggio, se ci pensate bene, è la metafora di ciò che ci aspetta.
Fonte: Corriere della Sera del 9 novembre 2011Adesso serve uno scatto d’orgoglio
L'autore: Dario Di Vico
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