• venerdì , 22 Novembre 2024

“Per l’ingresso nell’euro hanno pagato i giovani”

Il numero uno della Banca d’Italia: abbiamo scaricato su di loro i costi della globalizzazione e l’impossibilità di svalutare la moneta.
Ignazio Visco ha deciso di debuttare come governatore della Banca d’Italia con un discorso in cui sostiene che per un economista è importante occuparsi anche di scuola, di senso civico, di rispetto per la legalità, perché anche da quei fattori dipende lo sviluppo. Proprio mentre i banchieri centrali d’Europa vengono accusati di voler imporre ai popoli un’austerità crudele, che aggraverebbe ingiustizie e diseguaglianze, eccone uno che sorprende con tutt’altre idee.
Nella visione acquisita della politica economica, equità ed efficienza vengono usualmente intese come due esigenze opposte quasi mai facili da conciliare. Ignazio Visco invece mostra alcuni casi importanti in cui possono indicare una identica direzione di riforma. Nel discorso di ieri mattina a Catania, ha ipotizzato che l’uso massiccio di lavoro precario possa aver frenato il progresso tecnologico delle imprese italiane; ha sostenuto che una delle azioni più importanti «per la crescita» è migliorare le nostre scuole, fra l’altro integrandovi meglio i figli degli immigrati.
Nel suo studio di via Nazionale 91, il nuovo governatore spiega di essersi chiesto se fosse opportuno trattare di questi argomenti quando le urgenze della crisi occupano le sue giornate con ben altro; e si è risposto di sì: «anche il senso civico e la legalità possono essere considerati questioni di struttura dell’economia». A Catania, intervenendo al congresso dell’Associazione dei magistrati per i minorenni, è andato a dire appunto che l’economia cresce di più dove le leggi sono meglio rispettate, che le leggi sono rispettate dove la gente è più istruita; infine, che il ritardo di sviluppo del nostro Sud sul Nord può essere dovuto in gran parte alla criminalità organizzata.
Rompendo con la tradizione, dietro la sua scrivania Ignazio Visco ha fatto appendere quadri del Novecento: una grande tela astratta di Afro, un notevole autoritratto di Giacomo Balla. Tre video allineati gli consentono di tener d’occhio momento per momento la situazione, spread compresi. Soprattutto di giovani e di istruzione gli preme parlare, del resto gli argomenti che più aveva studiato negli ultimi anni. Ma con un governo che dovrà decidere nuovi tagli alle spese, che fare? «Se c’è un settore in cui consiglio di non risparmiare, è proprio l’istruzione» risponde.
Sembra quasi assurdo che un Paese tratti i suoi giovani così male. Il declino che tanto temiamo per il futuro esiste già in concreto nelle loro condizioni di vita: «I salari di ingresso sono oggi in termini reali su livelli pari a quelli di alcuni decenni fa; chi si affaccia oggi sul mercato del lavoro sembra escluso dai benefici della crescita del reddito occorsa negli ultimi decenni».
Per giunta, essersi sforzati negli studi porta poca ricompensa: rispetto agli altri Paesi, la differenza di paga tra chi è laureato e chi no è molto bassa.
I giovani spesso danno tutta la colpa al precariato: non dovrebbe esistere, dicono. «No – risponde il governatore – le leggi Treu del 1997 e Biagi del 2003 sono state utili, hanno creato un lavoro che non c’era. Vogliamo ricordare quanto era alta la disoccupazione giovanile fino alla metà degli anni ’90?».
Però poi si è instaurato un circolo vizioso, fanno sospettare gli studi della Banca d’Italia: «Pur sostenendo l’occupazione dei più giovani, la maggiore flessibilità può avere indotto le imprese, specialmente quelle meno efficienti, a rinviare la realizzazione di adeguati investimenti in ricerca e sviluppo e l’adozione delle tecnologie avanzate».
Dovrebbero leggere con attenzione queste parole i ragazzi che si accampano sotto le sedi della Banca d’Italia con l’insegna di «Draghi ribelli». Altro che liberismo spietato: il governatore sostiene che troppa flessibilità può fare anche male al sistema produttivo, soprattutto se è concentrata su una sola fetta della forza lavoro, i giovani. «Su di loro – dice – si è scaricato l’intero onere dell’aggiustamento reso necessario dall’apertura dei mercati e dall’impossibilità di ricorrere alle svalutazioni del cambio». In parole povere: gli sforzi per adeguarsi alla globalizzazione e all’euro li hanno compiuti quasi solo i giovani.
L’uso massiccio del precariato ha consentito di sopravvivere anche a imprese ormai inadeguate a reggere la concorrenza internazionale. Ha scoraggiato quel processo di ristrutturazione industriale che la Banca d’Italia studia con grande attenzione da un decennio, già più lento degli altri Paesi «a causa della piccola dimensione media delle nostre imprese, e della loro gestione familiare» (anzi familista: ci sono studi che mostrano come la presenza di parenti dei proprietari in ruoli direttivi sia assai più frequente da noi che altrove).
Quale può essere il rimedio? E’ materia politicamente delicata in questi giorni. Visco si limita a dire che in prospettiva «il dualismo del mercato del lavoro va superato» e che nell’immediato «l’apprendistato, se usato bene, è uno strumento molto utile». In passato più volte la Banca d’Italia ha accennato che un contratto unico di con tutele crescenti nel tempo potrebbe essere una buona scelta.
Per il futuro preoccupa la debolezza dell’incentivo a studiare che i giovani ricevono. Ignazio Visco non si stanca di ripetere che «studiare è vantaggioso» non solo per guadagnare di più, ma anche per vivere meglio (risulta perfino che «le persone più istruite godono in media di una salute migliore»). Vede i giovani troppo sfiduciati sull’utilità dello studio e li consiglia a non essere pessimisti.
Tuttavia non nasconde che il vantaggio del maggiore guadagno è inferiore da noi rispetto a quasi tutti gli altri Paesi avanzati. Lo stipendio di un laureato da noi è del 50% più alto rispetto a quello di un diplomato, contro il 63% in Francia e il 67% in Germania. La svalutazione del lavoro dei giovani attraverso il precariato e il ritardo tecnologico delle nostre imprese si intrecciano in modo perverso con la scarsa qualità dell’istruzione italiana, alimentandosi a vicenda.
Da economista, il governatore vede un paradosso nel rapporto tra domanda e offerta: come mai in Italia essere istruiti vale poco sul mercato del lavoro, dato che di persone istruite c’è scarsità? Posto che «l’Italia è in ritardo rispetto ai principali Paesi avanzati, sia nei tassi di scolarità e di istruzione universitaria, sia nel livello delle competenze, dei giovani come della popolazione adulta», è strano che i pochi capaci non vengano accanitamente contesi dalle imprese.
Si laureano pochi ingegneri ed è difficile impiegare anche quelli; quando trovano lavoro guadagnano abbastanza poco (benché più dei coetanei italiani laureati in materie umanistiche); anche se fanno carriera l’avanzamento è meno consistente che altrove, «in un Paese che ancora promuove troppo per anzianità e troppo poco per merito. E’ molto radicato nella mentalità della gente che l’anzianità di servizio debba avere un forte peso; lo constato perfino qui da noi, in Banca d’Italia».
Di questo paradosso «una delle spiegazioni può essere – prosegue il governatore – che la qualità non buona dell’istruzione renda difficile alle imprese di selezionare i migliori. Si crea quello che gli economisti chiamano un problema di asimmetria informativa». Nel confronto internazionale la nostra scuola elementare se la cava bene, poi sono guai (pur con qualche miglioramento negli ultimi anni, precisa): i nostri quindicenni sono circa al livello dei quattordicenni degli altri Paesi Ocse.
Per di più, negli anni prossimi occorrerà uno sforzo intenso per formare i figli degli immigrati. Già alla fine delle elementari un terzo tra loro è in ritardo negli studi, contro appena il 2% degli italiani, poi lo svantaggio si accresce ancora negli anni successivi: e «ci rendiamo conto che nel 2050 un nuovo lavoratore su tre sarà immigrato o figlio di immigrati?».
In Germania per ottenere più laureati alcuni Laender hanno abbassato le tasse universitarie. «No – scuote la testa Visco – ciò che è utile si deve pagare. Deve passare l’idea che istruirsi è un investimento che renderà nel futuro. Meglio un sistema di prestiti d’onore, all’americana». E come la mettiamo con le ristrettezze del bilancio, così pressanti negli anni che ci attendono? «Un Paese come il nostro, ormai in ritardo su diversi fronti, dovrebbe mirare a investire in conoscenza non solo quanto, ma più di altri Paesi dotati di maggiori risorse naturali. Non dobbiamo soltanto colmare i divari, dobbiamo invertirne il segno».

Fonte: La Stampa del 26 novembre 2011

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