Per eliminare Ici o Irap è necessario tagliare i costi
della macchina statale. Se non ce la farà il governo
tecnico, saranno guai per la crescita dell’economia
e per l’occupazione.
Giusto o sbagliato che sia, due tasse sono particolarmente invise agli italiani: l’Ici e l’Irap. Per eliminarle, occorre diminuire la spesa pubblica. Tutti i governi sono capaci di aumentare le tasse, pochi di diminuire le spese; se i tecnici non saranno capaci di farlo, nessuno potrà e saranno guai per la crescita e l’occupazione. Lo Stato già si appropria di quasi la metà del valore aggiunto complessivo del Paese e non è ancora appagato.
C’è sempre una ragione per aumentare le tasse e, quando si presenta la necessità, si tenta di addolcire la pillola promettendo di tagliare le spese. Se però si osserva il grafico della serie temporale delle entrare e delle spese pubbliche esse, salvo brevi increspature che seguono le periodiche manovre, continuano a procedere su una linea di tendenza crescente. Le manovre di bilancio sono la tomba dove vengono sepolte le buone intenzioni di crescita in nome della stabilità. Il problema di fondo resta quindi il peso del fisco sui consumi delle famiglie e sull’attività produttiva. Oggi, non vi è atto delle famiglie o delle imprese che non sia accompagnato da uno specifico balzello fiscale e, non di rado, da un altrettanto oneroso impiego di tempo.
Le indagini Mediobanca sulle imprese italiane, capaci non solo di reggere la concorrenza, ma anche di guidare il gioco degli scambi internazionali (che l’ottimo Marco Fortis ha censito e l’altrettanto ottimo Fulvio Coltorti chiama «quarto capitalismo»), indicano che il costo del lavoro è inferiore di circa un decimo a quello tedesco, più che compensando la minore produttività e consentendo così un margine di profitto superiore a quello delle imprese tedesche. Questo vantaggio, che tornerebbe utile per ampliare gli investimenti e mantenere la loro localizzazione in Italia, viene assorbito dall’imposizione fiscale superiore per circa la metà a quella tedesca.
Il primo dovere di un governo è quindi quello di tagliare la spesa pubblica, cominciando dalla parte onerosa e inefficiente della Pubblica amministrazione e rispettando la fascia ancora ampia del pubblico impiego seriamente impegnato nel servire gli interessi collettivi. Solo se si procedesse in tal senso si legittimerebbe la richiesta di sacrifici rivolta in modo indistinto ai lavoratori e ai pensionati. Certamente è compito arduo, ma il governo dei tecnici deve farlo se vuole giustificare perché il Paese si sia discostato dai meccanismi classici della democrazia per affidare loro il potere. Le istituzioni europee dovrebbero dare una mano in tal senso invece di mettere sempre sotto accusa lavoro e pensioni. A causa di un falso rispetto delle sovranità nazionali, dati i vincoli che impongono all’esercizio delle politiche fiscali, preferiscono ignorare che il buon funzionamento del mercato unico e una crescita sostenibile presuppongono un fisco equo e trattamenti tributari sostanzialmente eguali tra i partecipanti all’attività produttiva. È prevalsa l’idea che la concorrenza fiscale tra Stati avrebbe dato questi frutti, ma si è compiuto un errore di valutazione grave: le divergenze fiscali sono infatti aumentate anche sotto la spinta delle manovre richieste ai Paesi membri per ottenere in contropartita un aiuto che, peraltro, non risolve le loro difficoltà di finanza pubblica. Fisco equo ed eguale sono stati relegati sullo sfondo delle preoccupazioni di politica economica europea, mentre devono stare al centro dello sviluppo, che resta l’unico vero viatico per raggiungere l’unione politica che manca per affrontare con efficacia la lotta alla speculazione.
Facile aumentare le tasse, il problema restano le spese
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