• sabato , 23 Novembre 2024

Ma è stata scelta la strada più complicata

La cessione del patrimonio pubblico per 200 miliardi di euro avrebbe consentito di rimborsare parte del debito statale. Abbattendo gli interessi di 10-12 miliardi di euro.
La terza manovra in meno di metà anno è stata varata. Esistevano due strade possibili per affrontare la crisi: la prima, cedere il patrimonio pubblico per rimborsare parte dell’ingente debito statale, ridurre la spesa pubblica centrale e periferica, e liberalizzare i mercati dei servizi; la seconda, aumentare la pressione fiscale sui redditi e sulla ricchezza, e tagliare le pensioni. È stata scelta la seconda soluzione, mutuando qualche aspetto marginale della prima. La differenza sostanziale tra le due vie si può individuare nell’abbattimento degli interessi di 10-12 miliardi di euro, pari a due terzi degli aumenti fiscali decisi, che si sarebbero avuti nel caso di cessione del patrimonio pubblico per 200 miliardi.
Anche nell’occasione è stato ribadito che la crisi è colpa dei comportamenti sconsiderati dell’Italia e avevamo quindi la responsabilità di evitare il default del nostro debito pubblico e di non trascinare nel baratro l’Unione europea e l’euro. È quindi lecito domandarsi se la manovra mette in sicurezza l’una e l’altro. Una manovra che si prefigga di abbassare il livello del debito pubblico con avanzi primari (ossia tasse più elevate delle spese, al netto degli interessi), aumentando la pressione fiscale sui redditi effettivi e presunti (le rendite catastali), nonché sui consumi (come l’Iva), spostando ancora sui cittadini (con l’Ici-Imu) parte degli oneri di uno Stato centrale e periferico inefficiente, ha caratteristiche sia deflazionistiche che inflazionistiche; considerando questo secondo effetto è veramente ingiusto negare la rivalutazione alle pensioni con un doppio effetto sulle stesse per via dell’aumento dei prezzi (speriamo quindi che Monti ci ripensi). Anche per questo motivo la soluzione principale avrebbe dovuto essere quella di non procedere per un anno al rinnovo del nostro debito pubblico in essere, scegliendo la prima alternativa. La soluzione tecnica per farlo esisteva ed esiste.
È difficile sostenere che i provvedimenti di liberalizzazione e di sostegno alle imprese e all’occupazione decisi dal governo favoriranno la crescita e, pertanto, piaccia o non piaccia, sarà il mercato a decidere se la manovra va nella giusta direzione, più di quanto non pretendano di farlo l’Unione europea e la Bce, forse sarebbe più adatto dire la Merkel e Sarkozy, soprattutto dopo il loro ultimo summit.Se il mercato valuterà che i provvedimenti presi dal governo italiano, nonostante gli effetti negativi che comporteranno, rispondono alle necessità del momento, la manovra si potrà considerare ben congegnata. Le reazioni immediate sembrano confermarlo e questo non può non essere accolto con un senso di sollievo che compensa lo sconforto psicologico di vedere sempre aumentare la quota di Pil di cui lo Stato, crisi dopo crisi, si appropria, senza mai affrontare i problemi di una sua efficiente gestione. Deve comunque trascorrere ancora del tempo per avere conferma di un’inversione di rotta della speculazione, anche perché nello spread italiano vi è una componente dovuta all’assenza di adeguate decisioni dell’Unione europea o della sola eurozona: l’euro è infatti privo di un lender of last resort che si dia carico di contrastare la speculazione fino a sconfiggerla. La soluzione già ipotizzata nello scorso numero è di fare agire in sintonia la Banca centrale europea e 1’Ue, decidendo di emettere eurobond per la stabilità e lo sviluppo, ipotesi respinta da Germania e Francia, che preferiscono procedere ancora con vincoli, controlli e pagelle di buon comportamento fiscale. A maggior ragione, se resterà uno spread nell’ordine dell’1,5-2% per il rischio euro,l’Italia non dovrà più andare sul mercato nel prossimo futuro, cedendo il proprio patrimonio e acquisendo tempo per un’ordinata sistemazione della questione europea e una soluzione altrettanto ordinata dei problemi strutturali che affliggono il Paese.

Fonte: Panorama Economy del 14 dicembre 2011

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