“A primavera verrà il bello”, recitava poco prima della guerra uno slogan fascista, rivelatosi presto di malaugurio.
È sperabile non subiscano la stessa fine le novità fiscali europee che dovrebbero essere avviate dal prossimo marzo con la speranza di salvare l’euro. In primis con l’inserimento nelle Costituzioni (europea e nazionali) dell’obbligo del pareggio del bilancio. L’invito alla virtùè stato accolto da tutti con lodevole solerzia, passando, peraltro, sotto silenzio una clausola non secondaria.
Si tratta della formula, eguale per tutti, che recita: “Non è consentito ricorrere all’indebitamento, se non nelle fasi avverse del ciclo economico nei limiti degli effetti da esso determinati,o per uno stato di necessità che non può essere sostenuto con le ordinarie politiche di bilancio”. Può dunque apparire singolare che il presidente Monti, malgrado lo stato di recessione dell’Italia, abbia rinunciato a richiamarsi in sede di manovra a una clausola che ci esime dall’obbligo, sia pure temporaneo, del deficit zero. Non crediamo si tratti della reticenza a dar prova del lassismo spendereccio degli italiani, ma della percezione dell’effetto perverso che potrebbe avere l’utilizzo di una clausola che permettesse all’Italia di aumentare per un tempo limitato le spese e di diminuire le imposte. In un periodo così difficile potrebbe avvenire che i cittadini fossero spinti a mettere sotto il cuscino l’insperato risparmio, senza alimentare nuovi consumi e incrementare la produzione. Piuttosto per ottenere questo effetto il governo avrebbe potuto o potrebbe impegnarsi a impiegare il “tesoretto” direttamente in una lievitazione della spesa pubblica. Argomento, peraltro, di troppo difficile accordo fra tutte le eterogenee forze della maggioranza di governo per renderlo attuabile. Di qui il cauto silenzio.
Le cose comunque sono andate peggiorando con una novità dell’ultimo minuto. I 17 Paesi dell’Euro (più alcuni altri in via di adesione) hanno deciso di aggiungere ai Trattati costitutivi, un Patto fiscale (Fiscal Compact) con pari equivalenza giuridica per i firmatari. Il testo è ancora in fieri e gli emendamenti proposti dai vari governi stanno arrivando in questi giorni a Bruxelles. Ma l’aspetto più arduo consiste nella regola per ogni Paese che abbia un rapporto debito-Pil superiore al 60%, di ridurlo annualmente per 1/20 della distanza da tale valore di riferimento. Per spiegarla in soldoni l’Italia per raggiungere la distanza tra il 120% attuale in rapporto al Pil e il 60% di riferimento dovrebbe impegnarsi a ridurre il debito del 3% l’anno, circa 40-50 miliardi l’anno senza tenere conto del grado di recessione in cui versa quell’economia.
Una grandezza al di là di ogni misura di austerità che costringerebbe inoltre a privatizzare tutto il privatizzabile, nel momento peggiore per vendere. La ragione di questa misura risiederebbe nella unificazione delle politiche fiscali dell’Unione, così da rendere coerente la politica monetaria dell’euro. Ma, invece del salvataggio della moneta unica, è prevedibile piuttosto una catastrofe fiscale da impoverimento diffuso, secondo quelle formule deflazioniste che hanno sempre portato a clamorosi fallimenti durante tutte le grandi crisi, a cominciare da quella del ’29. Occorre, per contro, immaginare l’unica ricetta, quella che già Keynes aveva delineato, chiedendosi perché in queste fasi non c’è domanda né delle imprese né delle famiglie, mentre le banche si guardano bene dall’offrire prestiti. La risposta è quella di sempre: “quando il cavallo non beve”, l’unico soggetto in grado di intervenire è la domanda pubblica. Questa inoltre non è foriera di debito perché può essere finanziata mediante tassazione (ad esempio aumentare l’Iva non per tagliare il debito ma per finanziare maggiori appalti).
È un discorso complesso e difficile. Ragione di più per non lasciar fuori, come sta avvenendo, il Parlamento e gli altri contesti istituzionali.
L’errore di abbeverare il cavallo che non beve
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