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Ritocchi capitali

Per fortuna il titolo Unicredit ha continuato anche ieri a recuperare dopo il crollo del 63% in quattro sedute che aveva spinto il frettoloso Financial Times a scrivere – chissà se disinteressatamente – che l’aumento di capitale della banca italiana aveva assunto “le sembianze di un disastro” e che a portarne la responsabilità primaria era l’amministratore delegato Umberto Ghizzoni perché quella ricapitalizzazione andava fatta a inizio 2011. Inoltre, dal punto di vista della banca, il consorzio di garanzia è costruito in modo tale da assicurare la piena riuscita dell’operazione, persino nel caso che in Borsa il prezzo dovesse scendere sotto quello a sconto delle azioni emesse.
Dunque, è probabile (e sperabile) che il cosiddetto “caso Unicredit” possa considerarsi chiuso, alla faccia di chi stava già pregustando di portarsi via il controllo per quattro soldi (ieri Unicredit capitalizzava 5,3 miliardi dopo essere scesa vicino ai 4 contro i 70 miliardi che valeva nel 2007 prima della crisi dei subprime). Ciò non toglie, però, che al di là di Unicredit rimangano aperte due questioni relative al sistema bancario italiano nel contesto europeo. Una, contingente ma molto cogente, riguarda i motivi per cui alcuni istituti di credito made in Italy sono stati messi di fronte all’obbligo di chiedere soldi ai soci e al mercato; l’altra, ben più di fondo, riguarda la tenuta degli assetti azionari delle nostre banche di fronte agli sconvolgimenti portati dalla crisi. La prima questione riguarda la richiesta che l’Eba ha fatto al sistema bancario italiano di mettere in atto aumenti di capitale per 15,4 miliardi. Come ha detto giustamente il ministro Passera l’esercizio (scolastico) che l’Eba ha fatto sul patrimonio delle banche è “malpensato, malgestito e temporalmente sbagliato”, e rischia di creare, non solo in Italia, tanti “casi Unicredit”. L’ente di controllo europeo sostiene infatti che esse vanno ricapitalizzate perché i titoli di Stato detenuti nei loro portafogli debbono essere messi a bilancio in base al criterio del “mark to market”, cioè al prezzo che hanno sul mercato al momento in cui si chiude l’esercizio, e questo ben sapendo che quelle minusvalenze sono solo teoriche perché verrebbero davvero realizzate solo nel caso in cui quei titoli fossero venduti prima della scadenza. Di fronte a una scelta così scellerata e volendo scartare l’ipotesi della demenza, viene da pensare che siamo nel campo della cattiva fede (ed è peggio). Anche perché il vero rischio che le banche corrono è quello di un eventuale default di un paese di cui possiedano titoli di Stato o di un crollo dell’eurosistema, ma in quei casi altro che ricapitalizzazione ci vorrebbe. Naturalmente le operazioni di mercato – e quella di Unicredit, essendo stata la prima, deve servire da ammaestramento – non possono che essere fatte a sconto, ed ecco che i crolli, con relativa perdita di valore, diventano inevitabili.
Di fronte a questa situazione generata dal diktat dell’Eba – che ieri Draghi ha bollato come “prociclico” così da “ampliare le difficoltà degli istituti di credito” – occorre che governo e Bankitalia intervengano ufficialmente in sede europea per porre il problema e trovare una soluzione prima che il mercato macelli finisca per passare tutti nel tritacarne. Anche perché è opportuno non lasciare solo all’Abi il compito di organizzare le contromosse, visto che siamo di fronte ad un problema politico che va affrontato nelle sedi comunitarie. So bene che, come ha ricordato lo stesso Draghi, le misure straordinarie prese dalla Bce, a cominciare dal rifinanziamento a tre anni, “stanno fornendo un sostanziale contributo a migliorare la situazione di finanziamento delle banche europee”. Ma so anche, e Draghi lo ha sottolineato, che si tratta di misure “temporanee”, e che invece va trovata una soluzione di medio-lungo termine. E qui emerge in tutta evidenza, Eba o non Eba, il tema strategico dei limiti degli assetti azionari delle banche italiane. No, non si tratta di riaprire la vecchia discussione sulle fondazioni bancarie – a proposito, pensate a cosa sarebbe successo in questi frangenti se a suo tempo si fosse dato retta a chi voleva cancellarle dalla faccia della terra – ma di prendere atto che il fabbisogno patrimoniale è tale che i soci che fin qui hanno detenuto le proprietà non sono più in grado di farlo, o lo sono molto meno di prima (si pensi al caso di fondazioni che si stanno indebitando per sottoscrivere le loro quote di aumenti di capitale). Inoltre pesa il fatto che oggi le banche valgono da un quarto a un decimo di un tempo – tanto che con un centinaio di miliardi si potrebbe portare a casa tutte quelle quotate – il che le rende esposte a raid ostili o comunque ne abbassa fortemente la stabilità.
Sarà dunque bene che il tema scali di posto nella lunga leste delle priorità, e diventi centrale. Abbiamo bisogno di ridisegnare il capitalismo nostrano, adottando un modello di sviluppo consono allo scenario globale nel quale siamo immersi, e il punto di partenza non può che essere quello del riassetto del sistema bancario. Urge.

Fonte: Il Foglio del 13 gennaio 2012

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