• venerdì , 22 Novembre 2024

Linea liberal-keynesiana

Gli effettii nefasti di una stagione politica terribile si riverberano anche sulle politiche di sviluppo da attuare. E’ tempo di riprendere il discorso.
Ecco cosa vuol dire aver smesso per due interi decenni di discutere, senza prevenzioni e dogmatismi, nel merito delle politiche da attuare, e aver lasciato spazio solo alla dialettica dello scontro, alla delegittimazione reciproca, al dileggio. Capita che quando il sistema politico smette di urlare ed è costretto ad un esercizio di sano pragmatismo – finalmente, e speriamo per sempre – anche chi è stato estraneo alla corrida del bipolarismo armato, si ritrova disabituato al confronto programmatico. Se così non fosse non si capisce perché ci ritroviamo con un governo di professori che, invece di sparigliare prima di tutto sul piano culturale, della metodologia di approccio ai problemi, finisce col riecheggiare vecchie parole d’ordine il cui fondamento è stato clamorosamente confutato dalla storia. Mi riferisco all’idea, tutta ideologica, che facendo liberalizzazioni e privatizzazioni si possa magicamente moltiplicare il pil. Ora, un conto è considerare la creazione di un ambiente economico libero come fatto propedeutico allo sviluppo, e un altro è pensare che si traduca come per incanto in quota massicce di ricchezza. No, quelle derivano dagli investimenti. Certo, a loro volta possono essere favoriti – sul piano pratico come anche psicologico – da un più ampio grado di libertà economica, ma non automaticamente generati. Dunque disgiungere gli uni (gli investimenti) dalle altre (le liberalizzazioni) è un grave errore, e la cosiddetta “fase due” del governo Monti deve occuparsi di entrambe le cose, rendendole interconnesse. A parte il fatto che il decreto appena varato, pur andando complessivamente nella giusta direzione, rappresenta solo una quota parte di quanto occorra fare in tema di maggiore flessibilità dell’attività economica – nel mio giudizio: meno vincoli e meno burocrazia, poche regole più stringenti e più ferreamente fatte rispettare – in tutti i casi per poter dare quei risultati di crescita di cui il governo ha un po’ troppo disinvoltamente parlato, occorre mettere mano al portafoglio. Il modo l’ho indicato più volte in questa sede: intestare ad una società veicolo da quotare in Borsa i 700 miliardi di patrimonio pubblico che il Tesoro stima siano la quota parte più facilmente valorizzabile dei 1.800 miliardi complessivi conteggiati; obbligare i detentori di patrimonio privato, oltre una certa soglia e con percentuali progressive, a sottoscrivere i titoli della quotanda (una sorta di patrimoniale light); del ricavato, i due terzi vanno a detrazione del debito e un terzo a investimenti in conto capitale, da concentrare sia sulle grandi infrastrutture materiali e immateriali che servono al Paese per modernizzarsi, sia per costruire e rafforzare la presenza del nostro capitalismo in alcuni settori strategici ad alta intensità di “capitale-tecnologia-innovazione” e che richiedono grandi dimensioni. Con un incasso di 500 miliardi, si potrebbe portare il rapporto debito-pil sotto la soglia del 100% e avere circa 150 miliardi da spendere, di cui 100 potrebbero essere usati per investimenti diretti e riduzione della pressione fiscale su imprese e lavoro, e 50 per pagare i debiti delle pubbliche amministrazioni con le aziende (altro volano decisivo per riavviare i motori dello sviluppo). Insomma, una grande operazione, ben diversa dalla politica del rigore sul deficit (inevitabilmente recessiva) fin qui seguita e dalla politica degli incoraggiamenti (come è quella del decreto liberalizzazioni) dal lato della crescita. Ed è per questo che sono contrario ad alcune versioni minimaliste che ho visto circolare intorno a questa idea, questa sì davvero strategica, di cedere patrimonio pubblico (e di coinvolgere quello privato), come quella lanciata da Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera, che coinvolgerebbe Cdp, Sace, Fintecna, le fondazioni bancarie e Bankitalia. A parte l’estrema complessità dell’operazione suggerita, ma con i 50 miliardi indicati come target non si va lontano.
E qui torniamo da dove eravamo partiti. Occorre aprire un grande dibattito, culturale prima ancora che politico, che affronti – in un paese che nei fatti è rimasto statalista e assistenzialista ma ideologicamente ha sposato (anche a sinistra) il pensiero unico liberista – il tema del nostro modello di sviluppo e di come realizzarlo. Non penso che ci sia bisogno di andare a vedere i guai che il mercatismo ha prodotto attraverso il sopravanzare dell’economia finanziaria rispetto a quella reale per capire che il pensiero (dominante negli ultimi due decenni) basato sull’esaltazione acritica del mercato senza regole e dello Stato minimo, sia storicamente perdente almeno quanto il pensiero marxista. Io credo invece che questo sia il tempo di una pragmatica linea liberal-keynesiana, nella quale trovino spazio, da un lato, sia l’abbattimento del debito che la riduzione della spesa pubblica corrente (almeno di sette punti, dal 52% al 45%, attraverso una decisa semplificazione del decentramento, compreso il taglio di posti di lavoro nella pubblica amministrazione), ma dall’altro una forte iniziativa pubblica (investimenti, non domanda) e un significativo cambio nel sistema di welfare (salario minimo garantito al posto della cassa integrazione). Parliamone.

Fonte: Il Foglio del 27 gennaio 2012

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