Un malriposto entusiasmo dovuto al calo degli spread rischia di far dimenticare che la crisi esiste ancora e che va ancora combattuta con tutte le nostre forze.
Chi aveva avuto la sensazione, vedendo lacutizzarsi delle difficoltà delle imprese e osservando il calo dei consumi, che gennaio fosse stato un mese terribile, adesso ne ha la conferma: la produzione industriale è crollata del 5% su base annua e del 2,5% rispetto a dicembre. E siccome secondo Confindustria anche febbraio non sarà da meno, diventeranno sei i mesi consecutivi in cui la macchina produttiva nazionale ha perso colpi, portando al 6,2% la perdita di attività dallaprile 2011 e al 22,1% il gap accumulato rispetto al picco pre-crisi della primavera 2008. Si tratta di dati molto allarmanti. Perché, da un lato, confermano la recessione in atto, facendo presumere che la perdita di ricchezza a fine anno non solo non sarà di mezzo punto percentuale come ipotizzava il governo, ma sarà peggiore anche del già pesante 2,2% stimato dallFmi. E perché, dallaltro, rende improbabile il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica su cui è stata costruita la credibilità del recente turnaround italiano nello scenario internazionale.
Si dice che questa situazione sia figlia delle politiche restrittive degli ultimi anni. È vero solo in parte. Perché se si va a vedere la realtà sul campo, si scopre che le imprese che dispongono di prodotti a forte contenuto tecnologico e ad alto tasso di innovazione reggono, o addirittura hanno performance invidiabili se esportano verso i paesi a più alta crescita. Mentre chi agisce solo sul mercato interno e chi lavora con la pubblica amministrazione ha difficoltà, le quali diventano insopportabili per coloro che hanno produzioni labor intensive e non sono riusciti a delocalizzarle.
Dunque la crisi non è uniforme, ma crea selezione. Il che è positivo se si mette in moto un meccanismo virtuoso: via le imprese decotte, sottocapitalizzate e scarsamente innovative, dentro quelle capaci di penetrare i mercati emergenti. Ma così non accade, sia per colpa di alcune criticità del nostro capitalismo che lo impediscono, sia perché manca tanto una politica industriale capace di disegnare strategicamente la dialisi produttiva che dobbiamo fare quanto gli investimenti pubblici che la devono agevolare. Nel primo caso concorrono negativamente la piccola dimensione delle imprese, la loro eccessiva dipendenza dal finanziamento bancario per via della scarsità di equity, il livello decisamente più modesto delle nuove generazioni di imprenditori rispetto a quelle dei padri e dei nonni. Nel secondo caso, il suicidio della politica negli ultimi ventanni e lillusione liberista hanno cancellato la progettualità sistemica proprio quando le grandi rivoluzioni planetarie, dalla globalizzazione allavvento delleconomia digitale, hanno cambiato i paradigmi su cui era stata costruita lItalia manifatturiera. Ora i nodi sono venuti al pettine tutti insieme: mancanza di un progetto paese, debolezze genetiche del sistema produttivo, rigidità del fattore lavoro, credit crunch, poca produttività e scarsa competitività, blocco degli investimenti. E non sarà con politiche ordinarie o solo ossessivamente restrittive, ancorché giustificate dai problemi di finanza pubblica, che ne usciremo. Cè in giro una malriposta euforia da calo degli spread, che spinge la vecchia politica sconfitta sul campo a tentare di rimettersi in gioco, e rischia di indurre il governo a sedersi sugli allori. Niente di più sbagliato: la crisi non è affatto finita, serve un vigoroso colpo di reni.
Il crollo dei consumi
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