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Reset

Accertato che lo scambio tra articolo 18 “light” e maggiori garanzie ai lavori a tempo determinato sarà approvato, è il momento di concentrarsi sul futuro a lungo termine
Il canovaccio ormai è chiaro. Il governo si appresta a gestire uno scambio tra articolo 18 – non la sua eliminazione, ma una versione ridotta – e maggiori garanzie, e più soldi, ai lavori a tempo determinato. Con il primo accontenta Confindustria e Pdl, con i secondi sindacati e Pd. Ma se a livello politico lo “scambio” è cosa ormai accettata, sul fronte delle parti sociali gli ostacoli non sono ancora del tutto sormontati. Perché gli industriali cominciano a capire che i vantaggi sui licenziamenti per motivi economici sono più che compensati dai costi e dagli aggravi burocratici sul lato dei contratti e della flessibilità in entrata, mentre per i sindacati (Cgil in particolare, a causa del vincolo Fiom) la flessibilità in uscita continua ad essere un tabù. In tutti i casi Monti sembra determinato ad andare fino in fondo, anche se con le minori forzature possibili, perché dopo le pensioni ha bisogno di portare ai mercati e alla comunità internazionale anche lo scalpo del mercato del lavoro riformato. In questo disegno i dettagli poco importano, ciò che conta è poter confermare quel tasso di decisionismo con cui si è conquistato in 4 mesi una grande credibilità, a tutto vantaggio del Paese.
Ma siamo sicuri che sia la strada giusta? In una logica di breve momento, sì. È facile immaginare, infatti, che annunciare la riforma del mercato del lavoro, articolo 18 compreso, aiuterà gli spread a scendere ancora, a vantaggio della finanza pubblica e del recupero di immagine da parte dell’Italia. Ma se si considerano i problemi strutturali della nostra economia, assolutamente preesistenti sia all’attuale crisi europea da eccesso di debito e credibilità dell’eurosistema, sia alla crisi finanziaria mondiale scoppiata nel 2007, allora si vedrà che sono ben altro tipo di politiche ciò di cui abbiamo bisogno. O meglio, insieme a liberalizzazioni e mercato del lavoro – che sono pre-condizioni perché l’economia funzioni – bisogna immaginare grandi investimenti tesi a creare un nuovo modello di sviluppo, assodato che quello fin qui seguito è obsoleto e che gli unici a salvarsi sono quei pezzi di industria manifatturiera (pochi) che si sono internazionalizzati. Cioè quello di cui non si è discusso nella due giorni confindustriale di Milano, dove il tema dell’offerta – che comporta una forte dose di autocritica al capitalismo nostrano esistente, lì rappresentato – non è stato neppure sfiorato.
E come si fa? Si deve partire da un grande piano di abbattimento del debito pubblico – obiettivo che deve sostituire l’inutile e per certi versi dannosa rincorsa all’azzeramento del deficit corrente – e di revisione della spesa pubblica. Per poi continuare con un mega piano di investimenti pubblici (quelli privati arriveranno dopo), tesi ad ammodernare le infrastrutture materiali e immateriali, ad aiutare il nostro capitalismo a riconvertirsi verso produzioni e forniture di servizi a ben più alto tasso di innovazione tecnologica, a far diventare “industriale” l’offerta turistica.
Insomma, un vero e proprio reset del nostro sistema produttivo. Troppo ambizioso? Forse. Ma ineludibile. Che lo avvii Monti o che siano i partiti a trovare in esso il motivo del tanto evocato ritorno della politica poco importa, ma questo processo va messo in moto, e subito. Pena il definitivo declino dell’Italia.

Fonte: Messaggero del 18 marzo 2012

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