Le cessioni dei sindaci finanziano la spesa corrente senza
incidere su inefficienze e abusi. Ma gli enti locali non
possono chiamarsi fuori dalla sistemazione del debito
pubblico. Che avverrà solo con operazioni straordinarie.
Si moltiplicano gli annunci di cessione di importanti quote di beni comunali, come il 30% della Sea Aeroporti di Milano e il 21 % dell’Acea energia di Roma. Altre simili operazioni sono state messe in cantiere da Province e Regioni. Se il ricavato viene usato per finanziare la spesa corrente locale senza mettere le mani nelle inefficienze e negli abusi che l’accompagnano, si distrugge ricchezza; se, al contrario, è destinato agli investimenti, va dimostrato che imprima alla domanda globale una spinta maggiore della spesa privata, con un’analisi costi-benefici come quella che introdussi agli inizi degli anni Ottanta e poi abbandonata.
Attualmente, infatti, la spesa pubblica complessiva spiazza la spesa privata, creando deflazione e disoccupazione. Ma non è tutto.
Le proprietà comunali e regionali sono un patrimonio rilevante utile per abbattere il livello del debito pubblico, operazione che si rende necessaria per non entrare in un lungo periodo di deflazione del reddito e di caduta dell’occupazione applicando le regole del fiscal compact. L’accordo europeo recentemente firmato impone di ridurre in vent’anni la metà delle consistenze di titoli di Stato in circolazione (circa mille miliardi di euro) con avanzi di bilancio: significa che per vent’anni le tasse che pagheremo supereranno le spese mediamente di 50 miliardi, oltre tre punti di Prodotto interno lordo. Agendo così ci troveremmo però di fronte a una drammatica caduta dell’attività economica e dell’occupazione.
Il problema va dunque affrontato attuando un’operazione straordinaria di cessione del patrimonio pubblico, dovunque esso si trovi, per usarlo come base per un’emissione di titoli privati che moltiplichi il potenziale di rimborso dei titoli pubblici.
Le decisioni di cedere beni comunali indeboliscono la possibilità di attuare questa indispensabile operazione e si sommano a quelle del precedente governo che aveva trasferito alle Regioni parte del patrimonio dello Stato in nome del decentramento federalista. Anche invocando questo disegno politico, i Comuni, come le Regioni e ovviamente ogni altro ente territoriale, rivendicano indipendenza di decisione, ma non si possono chiamare fuori dalla sistemazione del debito pubblico per due buone ragioni. Primo, perché lo Stato non è un’entità astratta, ma è composto da un insieme di enti locali, ciascuno dei quali ha beneficiato delle risorse distribuite a seguito dell’indebitamento accumulato. Si può discutere se la distribuzione sia avvenuta e avvenga con criteri di equità, ove necessario correggendola, ma non si può certo negare che il debito appartenga a tutti.
Secondo, perché se non si risolve l’eccesso di debito pubblico nel modo indicato e si aumentano le tasse o si sottrae patrimonio utile al suo rimborso, la tragedia economica e sociale incombe anche su di loro, anzi solo su di loro.
In nome di un’urgenza che poteva valere per qualsiasi operazione straordinaria, la politica economica ha commesso l’errore di non partire dalla riduzione del debito pubblico da ottenersi cedendo il patrimonio del Paese, ripartendone le quote in proporzione ai Pil regionali, invece di tassare al centro e aumentare il potere di farlo alla periferia, causando una deflazione dalla quale molto difficilmente potremmo trarci fuori, come si sostiene, con gli altri provvedimenti di riforma che si vanno decidendo.
Ai fini delle decisioni prese o che si vanno prendendo è stato comodo per molti lasciare intonso il macigno del debito pubblico: non si può però vivere sperando che la strada intrapresa possa ridurre il debito pubblico in essere. Peggio ancora se il governo desse ascolto alle idee folli di un ricorso alle imposizioni patrimoniali, più di quanto non si sia già deciso in materia.
Le privatizzazioni dei Comuni sono scelte sbagliate
Commenti disabilitati.