L’antipolitica è una pratica deteriore che mina le fondamenta delle istituzioni. L’idea che una democrazia possa fare a meno dei partiti è terreno fertile per svolte autoritarie. Le inchieste di Rizzo e Stella, pubblicate dal Corriere , sui costi (scandalosi) della politica sono state lette da più parti con fastidio e disprezzo. Eppure non erano e non sono animate da un pernicioso qualunquismo, ma da una seria preoccupazione per l’immagine pubblica degli organi dello Stato e per la dignità dei rappresentanti della volontà popolare.
Il bene costituzionale della cittadinanza si riflette nell’orgoglio per i simboli repubblicani, nella rispettabilità degli organi elettivi, nel prestigio delle istituzioni e nella serietà e dirittura personale di coloro che temporaneamente ne reggono le sorti. Una buona legge sui partiti avrebbe fatto scoprire prima, o addirittura evitato, sia il caso Belsito, ex sottosegretario leghista alla Semplificazione ( sic ), sia l’ affaire del senatore Lusi, ex della Margherita, che dimostra come i partiti, a differenza dei cittadini, incassino anche da morti. Se i parlamentari avessero affrontato con maggiore serietà, e non con sacrifici episodici, il tema dei loro emolumenti e del costo complessivo di funzionamento delle istituzioni, la loro popolarità non avrebbe raggiunto livelli così bassi. Se il referendum del 1993, che vietava il finanziamento dei partiti, non fosse stato aggirato con una legge truffa sui rimborsi elettorali, il discredito non sarebbe stato così devastante.
Difficile dimostrare a famiglie alle prese con tasse crescenti e salari magri che sia vitale per la democrazia una leggina del 2006 che, oltre a consentire l’anonimato dei contributi ai partiti sotto i 50 mila euro, non ha risolto il problema dei controlli sui rendiconti delle spese. I cittadini tirano la cinghia, soffrono, ma il finanziamento pubblico ai partiti in dieci anni è lievitato del 1.110 per cento. Se tutte le voci di spesa pubblica avessero seguito la stessa dinamica saremmo già in bancarotta. I rimborsi sono dieci volte più alti delle spese, ma nessuno si è mai sentito in dovere di restituire ai cittadini quanto incassato in più grazie a una legge troppo generosa. Sarebbe stata una forma di immediato rispetto per i molti che vengono pagati in ritardo, o non pagati affatto, per i tanti che si vedono ritirare i fidi dalle banche e non hanno la fortuna di ottenere rimborsi superiori alle loro spese. Nella vita reale, fuori dal Palazzo, se qualcuno incassa di più di quanto gli spetta, generalmente restituisce. Ha promesso di farlo Rutelli, ma solo dopo l’esplosione del caso Lusi. Non prima.
A parole tutti vogliono cambiare la legge sui rimborsi elettorali. Sono una quarantina le proposte di riforma. Nessuna delle quali è all’ordine del giorno dei due rami del Parlamento. Non è un caso che ieri Enrico Giovannini, capo dell’Istat, si sia dimesso dall’incarico di presidente della commissione incaricata di studiare come ridurre i costi della politica e allinearli alla media europea. Regole scritte male, missione impossibile. Il capo dello Stato è intervenuto, ancora una volta e autorevolmente, per sollecitare decisioni immediate. Forse sarebbe opportuno che i presidenti del Senato e della Camera chiedessero al governo di concordare un decreto legge da approvare in fretta. Per dimostrare che i partiti sanno guardarsi allo specchio. Conservano il senso della responsabilità nazionale e sapranno contrastare al meglio la deriva dell’antipolitica che si nutre di scandali e di microinteressi. E che conosce un solo antidoto: il buon esempio.
Guardandosi allo specchio
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