• sabato , 23 Novembre 2024

Addio Vega metafora dello spreco italiano

In Europa c’erano solo due paesi capaci di progettare, costruire e lanciare vettori spaziali, la Francia e la Russia. Dal 13 febbraio scorso, quando Vega è stato lanciato con successo dalla base nella Guyana e ha messo in orbita 11 satelliti diversi su orbite diverse, ce n’è anche un terzo, l’Italia, che non solo ha coperto il 65 per cento dei costi ma ha anche assunto la responsabilità progettuale e industriale del progetto che è stato realizzato per la gran parte in Italia. Il successo è una sorpresa, un po’ perché dall’Italia non ci si aspetta tanto e un po’ perché al primo lancio di un vettore completamente nuovo raramente tutto funziona a dovere. Il 13 febbraio invece è filato tutto liscio come l’olio in un esordio perfetto, giustamente festeggiato con brindisi, bandiere tricolori e inni di Mameli. Il problema arriva il giorno dopo ed è il solito. Il futuro. Il futuro, e questa purtroppo non è una sorpresa, non c’è. Non ci sono piani, non ci sono soldi e si addensano invece i rischi che questa, che potrebbe essere una splendida partenza, resti solo una data da ricordare. A realizzare Vega è una società, che si chiama Elv (che ha gestito il sistema, mentre molte imprese soprattutto italiane hanno costruito le varie componenti) e il cui capitale è posseduto per il 70 per cento da Avio e per il 30 per cento dall’Agenzia Spaziale Italiana Asi. Il progetto è stato portato avanti nell’ambito dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) con fondi forniti per due terzi dall’Asi. Con il coinvolgimento di università, centri di ricerca e imprese private è stato progettato e costruito un lanciatore completamente nuovo e flessibile, capace di lanciare satelliti fino a circa 1400 Kg. nelle cosiddette “orbite basse” fino a 700 chilometri dal suolo. Un’attività che ha un mercato in espansione legato soprattutto alle attività di osservazione della terra. Il suo futuro prevedibile è una ordinaria sopravvivenza con uno o due lanci l’anno.
Ma oltre a quello prevedibile c’è anche un futuro possibile e anche auspicabile, ovvero un potenziamento del lanciatore e/o il suo ulteriore sviluppo per metterlo in condizione di lanciare satelliti anche nelle orbite medie, come quelle di interesse per il sistema Galileo, il che aprirebbe un mercato assai più ampio nonché un ulteriore ciclo di ricerca e innovazione, che potrebbe valorizzare il lavoro sin qui fatto e creare posti di lavoro superqualificati in quella economia della conoscenza che tutti dicono dovremmo costruire.
Su questa strada virtuosa ci sono però due ostacoli: il primo sono le risorse e il secondo è la proprietà di Avio. Le risorse per un progetto del genere arrivano dal pubblico, cioè nello specifico dall’Asi, che è a sua volta finanziata dallo stato, che ha già ridotto il bilancio dell’Agenzia spaziale. Quanto all’Avio, azionista di maggioranza di Elv, il problema è ancora più complesso. Il suo capitale è posseduto per l’85 per cento dal fondo Cinven, che lo ha messo in vendita, e per il 15 per cento da Finmeccanica. Lo spazio è una piccola parte dell’attività di Avio, benché la tecnologia sia elevatissima, mentre il grosso è l’aeronautica, settore nel quale la società possiede tecnologie proprie considerate di grande interesse. Gli acquirenti della quota Cinven sono già sull’uscio, sono la francese Safran, che con la sua controllata Snecma è già parte del progetto Ariane, e l’americana General Electric, interessata soprattutto alla parte aeronautica.
Il problema in questo caso non è l’italianità del compratore, visto che con Cinven il capitale è già in mani estere, ma la sua natura. Cinven è un fondo, Safran è invece una società del settore, che non ha interesse a sviluppare in Italia una tecnologia spaziale, della quale oggi la Francia è pressoché monopolista in Europa. Si sa già che nel caso in cui Avio finisse alla società francese in Italia resterebbe solo un po’ di manifattura e segnatamente la produzione di propellenti solidi a Colleferro. Addio ricerca, addio tecnologia, addio futuro per un settore industriale avanzatissimo.
In attesa di capire che fine farà, alla Elv è cominciato il processo di smantellamento, 27 ingegneri spaziali con contratti a termine sono stati mandati a casa e altri seguiranno. E’ il gruppo di lavoro, molti i giovani, che ha progettato Vega e che quindi ha quel know how straordinario che solo la partecipazione alla progettazione di un nuovo vettore dall’inizio e per tutto il processo può dare. Succede una volta in una generazione, e infatti i progettisti di Ariane sono stati i leader dell’industria spaziale europea negli ultimi trent’anni. Questi futuri leader che abbiamo costruito noi adesso li mandiamo a casa, o più probabilmente all’estero dove la loro esperienza aiuterà lo sviluppo industriale di altri.
Quella che il governo tecnico si trova davanti è quindi una scelta di politica industriale. L’Italia, attraverso i suoi ministri, deve decidere se vuole rimanere un protagonista dell’industria spaziale (e anche aeronautica), dopo aver faticato molto per diventarlo, oppure rinunciare. Non sarebbe la prima volta che rinunciamo: ferrovie, centrali elettriche, grande chimica, informatica. Di volta in volta per miopia, mancanza di capitali e, perché no, pressioni di paesi vicini e meno vicini ai quali non abbiamo saputo dire di no scambiando futuro con qualche briciola.
Se questa volta decidessimo di non rinunciare, scegliessimo di puntare davvero sull’economia della conoscenza, avessimo il coraggio di non subire imposizioni e avessimo invece la capacità di incidere sulle strategie dell’Esa, che è la titolare dei programmi, questa sarebbe una occasione d’oro. Non ci vuole moltissimo, qualche centinaio di milioni di fondi per la ricerca nell’arco di sette o otto anni, e riportare Avio in Italia, anche ripubblicizzandola con l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti. Sarebbe il segnale di un modo nuovo di vedere l’interesse nazionale, eviteremmo la dispersione delle competenze straordinarie che abbiamo costruito e la morte lenta delle tante imprese italiane del settore. E a un prezzo non molto caro ci compreremmo un pezzetto di futuro.

Fonte: Affari e Finanza del 7 maggio 2012

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