‘Non credo che aumentare le ore di lavoro sia una soluzione decisiva’. Parla Stefano Dolcetta, amministratore delegato della Fiamm, entrato in azienda nel ’74. Aveva 25 anni, e ha salito tutti gradini fino al vertice. Non si può dire quindi che non abbia esperienza di come funziona un’azienda.
La Fiamm, azienda leader nelle batterie per auto e negli accumulatori per uso industriale, ha 3 mila dipendenti nel mondo (è presente in 60 paesi) e 950 in Italia e nel 2010 ha fatturato oltre 500 milioni di euro. Nella giunta del nuovo presidente di Confindustria Giorgio Squinzi Dolcetta è vicepresidente responsabile delle relazioni industriali.
Ha sentito dell’idea del sottosegretario Polillo: una settimana in più di lavoro gratis. E’ questo che serve?
“Non credo che sia la soluzione decisiva. Anche se è vero che ci sono paesi dove si lavora di più”.
A leggere le statistiche non sembrerebbe. Siamo sopra la media Ocse.
“L’Ocse è un’organizzazione serissima e non voglio certo mettere in dubbio i suoi dati. Però, per esempio, nella nostra fabbrica in Canton Ticino si lavora circa 200 ore di più. Inoltre, noi abbiamo formalmente un orario di otto ore, però poi bisogna sottrarre mezz’ora per pausa mensa, altri 10, 15, forse 20 minuti per le cosiddette “soste fisiologiche” e aggiungere l’assenteismo. Io non so come l’Ocse ha contato queste ore, ma sospetto che abbia consideranto l’orario formale, non credo che siano andati a verificare i tempi effettivi delle varie aziende di tutti i paesi. Quindi ci potrebbe essere qualche differenza rispetto alle ore di lavoro reali”.
Ma la pipì la fanno anche gli operai degli altri paesi, no?
“Certamente. Ma, tanto per fare un altro esempio, in Austria la mezz’ora della mensa è fuori dalle otto ore di lavoro. Sarebbe interessante vedere dei dati che considerino tutte queste variabili. Però, ripeto: questo è certamente uno dei fattori che entrano in giuoco, ma non mi sembra quello principale. Sarebbe riduttivo concentrarsi solo su questo”.
E quali sono quelli più importanti?
“Noi prendiamo sempre come punto di riferimento la Germania: lì hanno investito, hanno processi produttivi mediamente più avanzati. Una volta i nostri prodotti, alla porta dello stabilimento (cioè senza considerare tutti i problemi esterni), erano competitivi, ma temo che ormai non sia più così. E poi lì 1.000 aziende fanno l’85 per cento dell’export, da noi per arrivare a quella quota ne servono 4 mila. Questo significa anche che per le nostre industrie è fondamentale la domanda interna. Non tanto per la Fiamm che per i tre quarti fattura all’estero. Ma per la maggior parte delle imprese è indispensabile e urgente qualche stimolo alla notra economia. Magari attraverso la pressione fiscale, che da noi è più alta: bisogna ridurla sul lavoro e sulle aziende
Serve piu’ domanda interna
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