Una ricerca dimostra che il benessere degli italiani è in calo continuo dal 2007. In diminuzione anche i consumi e (moltissimo) le quote destinate al risparmio.
Quasi trent’anni bruciati. E’ il prezzo che l’Italia pagherà alla fine della doppia recessione vissuta tra il 2009 e il 2012. Tra un’economia che non cresce e un diluvio di tasse per arrestare la corsa del debito pubblico. Mentre tutte le retribuzioni sono ferme da anni, se non negative in termini reali.
L’indicatore cui guardare per rendersi conto dell’arretramento è il reddito disponibile reale pro capite ovvero quanto resta in tasca (in media, naturalmente) a ciascun italiano dopo aver pagato tasse e contributi sociali, al netto dell’inflazione. Ebbene, secondo i calcoli di Prometeia, la società di ricerche economiche bolognese diretta da Paolo Onofri, il reddito pro capite nel 2015 tornerà ai livelli del 1986.Il grande balzo all’indietro ha molte cause.
Lo sviluppo si è fermato, di fatto, all’inizio del secolo e negli ultimi anni il Pil (Prodotto interno lordo) è addirittura diminuito per effetto della doppia recessione. Si produce di meno, si consuma di meno, si investe di meno. E il reddito cala. Allo stesso tempo la pressione fiscale e contributiva, che normalmente in queste condizioni congiunturali i governi riducono per stimolare l’economia, è aumentata.
Bisognava infatti far fronte alla crescente spesa pubblica ed evitare incrementi del debito pubblico. Colpa dei mercati internazionali che hanno scommesso sull’insolvenza dell’Italia vendendo i titoli del Tesoro che prima avevano accumulato in abbondanza. Gli economisti di Prometeia hanno calcolato che la quota dei titoli di Stato detenuta da stranieri è scesa dal 49 per cento del 2007 al 43,2 del febbraio scorso. In Spagna nello stesso periodo la percentuale è scesa anche di più, dal 47,6 al 37,2.
Dunque meno reddito, più tasse e infine più popolazione, ovvero più bocche che si dividono una torta sempre più striminzita. Non di molto ma gli italiani sono aumentati, soprattutto grazie all’immigrazione.
Tutti questi fattori (reddito, tasse, popolazione) hanno spinto verso una sola direzione: la riduzione del benessere individuale, misurata appunto dal reddito disponibile pro capite.
Meno pesante è l’arretramento dell’altro indicatore: i consumi reali pro capite, cioè quanto ciascun italiano spende ogni anno, sempre al netto dell’inflazione, per mangiare, vestirsi, mantenere una casa, far studiare i figli. In questo caso si torna ai livelli del 1998. Ma come è possibile che le famiglie diminuiscano i consumi meno del reddito, cioè di quanto entra in casa? Semplice: hanno ridotto, e parecchio, il risparmio. Nel 2013 la quota di reddito disponibile destinata al risparmio finanziario precipita all’1 per cento dopo essere stata anche al 7 per cento all’inizio degli anni 2000. E impressiona anche il dato in valore assoluto: meno di 10 miliardi di euro.
«Un livello», osserva Stefania Tomasini, economista di Prometeia, «che deve far riflettere anche per il futuro dell’industria italiana del risparmio gestito». Per i signori dei fondi d’investimento e delle gestioni patrimoniali si annunciano tempi bui.
Ecco come sono crollati i redditi
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