• sabato , 23 Novembre 2024

Pensiero unico sotto accusa. Se sfidarlo fa bene

Il «pensiero unico» torna sul banco degli imputati. L’espressione coniata più di un lustro fa dal direttore di Le Monde diplomatique, Ignacio Ramonet, per dare incisività alle ragioni dei movimenti no global, è di nuovo l’argomento polemico degli intellettuali antiliberisti. Sta accadendo in questi giorni in Italia con un appello sottoscritto da un gruppo di economisti, giuristi e sociologi (Giorgio Lunghini, Guido Rossi, Luciano Gallino e altri) che denunciano «un furto d’informazione». Sostengono che il pensiero unico avrebbe non solo spianato ai suoi adepti l’accesso alle più importanti cariche ma anche occupato i media. «Le dottrine neoliberali hanno goduto di un monopolio sui cervelli che non ha precedenti storici» ha dichiarato Gallino al Fatto. E sul Manifestol’economista Guido Viale ha indicato in Monti e Draghi gli esponenti di punta di «questa cultura da contabili» che ha «impregnato di sé i vertici di imprese, istituzioni finanziarie, governi, partiti e mondo accademico».
Non fa parte del perimetro della stessa iniziativa ma il revamping di Mario Tronti ed Alberto Asor Rosa tornati ad essere gli intellettuali di punta del Pd segnala comunque il rafforzamento di una tendenza antimercatista anche dentro il principale partito del centrosinistra. Del resto i liberisti al potere, hard o soft che sia, dovevano in qualche modo attendersi il risorgere di una contestazione, se non altro perché gli effetti positivi delle scelte rigoriste da loro propugnate stentano a vedersi.
Ma siamo davvero davanti a un pensiero unico o la galassia liberale presenta al suo interno scuole, identità e ricerche assai differenti tra loro? Definire Monti neoliberista non è forse una semplificazione? Da professore e da commissario Ue non mai amato lady Thatcher e nemmeno Tony Blair e il workshop di Cernobbio che lo vede da anni come regista non è stata mai una palestra di turbocapitalismo. È vero invece che nel fronte liberale esiste una componente con una matrice culturale americana che guarda con maggiore distacco emotivo all’evoluzione dell’europeismo. Sono gli Zingales, i Giavazzi, gli Alesina, i Bisin, i Boldrin, i Perotti, i Tabellini, molto presenti sui quotidiani italiani anche in virtù della loro verve. Nelle argomentazioni la parola «tasse» è ricorrente, quasi tutti vedono nel taglio delle imposte la vera leva dello sviluppo e quindi concepiscono le politiche di rigore, anche le più dure, come un pre-requisito per poter abbassare la pressione fiscale.
La componente neoliberale che si è formata più in Europa oscilla tra l’economia sociale di mercato e il pensiero di Bruxelles e ha in mente un’agenda delle priorità differente dagli «americani». Nel loro credo l’azione dei governi si carica di una valenza pedagogica e anticipatrice e le liberalizzazioni dei mercati sono viste come azioni che servono a combattere innanzitutto le rendite. Insomma l’universo liberale è plurale e non a caso in questi mesi il dibattito tra le varie anime, in più di qualche caso, è stato aspro. E poi una dimostrazione di come sia difficile irreggimentare la cultura liberale viene dal ricordo della figura di Tommaso Padoa-Schioppa. Fu lui a introdurre in Italia la cultura della spending review ma ebbe anche modo di definire le tasse come «una cosa bellissima».
Se dal punto di vista accademico la pretesa di disegnare un unico pensiero presenta qualche difficoltà, il tallone d’Achille dei neoliberisti sta caso mai nella scarsa efficacia delle politiche adottate per far fronte alla travolgente crisi dei debiti sovrani. I critici trovano consenso laddove dipingono i loro avversari alla continua e spasmodica ricerca di nuove misure che appaiano sufficientemente draconiane da tenere buoni i mercati. Un’altra accusa portata ai liberisti è quella di non riuscir a tener presente nei loro schemi come a fronte di una finanza pienamente globalizzata la raccolta del consenso politico rimanga nazionale e di conseguenza la signora Merkel non sia propensa a barattare una concessione ai partner europei con il rischio di perdere le elezioni anche solo in un Land. Aver concesso ai mercati la patente di giudici imparziali non giova ai liberisti perché quando Moody’s taglia in maniera sconsiderata il rating all’Italia, come è accaduto nei giorni scorsi, anche dal fronte lib si protesta e si invoca il legittimo sospetto.
Ma torniamo al «furto di informazione» denunciato da Gallino e Rossi. Qualcuno ha fatto dell’ironia perché si tratta di due editorialisti di punta della Repubblica e del Sole 24 Ore ma la verità è che l’appello, quantunque parta da posizioni minoritarie, è destinato a vivacizzare il dibattito intellettuale sulla crisi. Una società aperta, come quella a cui ambiscono i liberali genuini, non dovrebbe aver problemi ad accettare la sfida perché nel contraddittorio ci si migliora. L’unico rischio sta nell’eterno ritorno del derby Keynes vs von Hayek perché per superare la crisi più che consultare i sacri testi varrà attingere a un sano pragmatismo. Deng Xiao Ping, l’uomo che ha convertito al mercato il maggior numero di persone al mondo, soleva dire che di un gatto non conta il colore bensì che sappia far bene il loro lavoro di acchiappatopi.

Fonte: Corriere della Sera del 26 luglio 2012

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