• domenica , 24 Novembre 2024

Stretta, il peggio deve ancora venire

Le manifestazioni di protesta riempiono le piazze, la disoccupazione aumenta, il Pil continua a scendere: ma il peggio, per l’Italia, deve ancora venire.
Per pensarlo basta guardare un grafico dello studio Ocse appena diffuso, Responding to the crisis: what are OECD countries doing to strengthen their public finances? (Le risposte alla crisi: che cosa stanno facendo i paesi Ocse per rafforzare le loro finanze pubbliche?). Il grafico mostra l’entità, in rapporto al Pil, delle manovre già fatte tra il 2009 e il 2011 e di quelle pianificate per il quadriennio 2012-2015.
Nel grafico si vede (parte azzurra delle barre) che fino al 2011 l’Italia aveva fatto poco o niente rispetto agli altri paesi, specie se il confronto è con quelli in maggiori difficoltà. Non era per antipatia, dunque, che i partner europei ce l’avevano tanto con Berlusconi. Poi è arrivato Monti e le manovre le ha fatte, allineandosi come dimensione complessiva, più o meno, agli altri paesi europei. Niente di comparabile a quelle di Grecia, Irlanda e Portogallo, comunque, e meno anche della Spagna e della Gran Bretagna.
Non ci dobbiamo lamentare, allora? Per rispondere bisogna fare due considerazioni. La prima è che, essendo rimasti indietro fino al 2011, per il quadriennio 12-15 la nostra stretta è la più pesante di tutte, a parte i tre paesi sull’orlo del default: più pesante anche di quelle spagnola e inglese. Ciò significa che la nostra economia sarà frenata di più e più a lungo e francamente risulta difficile capire su quali basi Mario Monti possa dire che “si comincia a vedere la luce in fondo al tunnel”. Si è portati, per una volta, ad essere d’accordo con la replica di Sergio Marchionne: “Se c’è una luce, è il treno che arriva”.
La seconda considerazione è più generale. Siamo in gran parte costretti ad attuare questa politica perché è quella scelta e imposta dalla Commissione Ue, dalla Bce e dai partner europei più forti, Germania in testa. Ma se una politica è sbagliata, il fatto che tutti o quasi concordino di attuarla non la rende più giusta. Anzi, peggiora la situazione. I leader politici e tecnici sembrano aver dimenticato la lezione della crisi del ’29: tutti gli storici dell’economia concordano sul fatto che precipitò a causa della fretta eccessiva con cui il presidente americano Herbert Hoover decise di rientrare dal deficit di bilancio. Non a caso, è un errore che finora l’America di Obama non ha ripetuto, fiscal cliff permettendo. E il presidente della Fed Ben Bernanke, che da professore ha studiato in particolare proprio la crisi del ’29, ha appena fatto un appello in proposito.
Che cosa comporta questa politica? Basta guardare un altro grafico, elaborato dall’economista del Cerm Nicola Salerno, per capirlo. Mostra l’andamento di fatturato e ordini dell’industria, distinguendo tra quelli interni e quelli che vengono dall’estero.
Il grafico ci dice che il mercato interno continua a crollare e ha ormai quasi raggiunto i minimi toccati all’inizio della crisi, nel 2009. Le manovre hanno prosciugato la domanda interna, chi non esporta è perduto. Via di questo passo, avremo forse conti pubblici più in ordine (ma non è detto, perché la recessione fa diminuire le entrate, che richiedono altre manovre, che accentuano la recessione… L’ormai noto circolo vizioso), ma avremo perso un bel pezzo delle imprese. Finora ci ha salvato l’estero, ma, grazie a queste politiche restrittive generalizzate, anche lì sono cominciate le difficoltà.
Fin dall’inizio della crisi era chiaro per qualcuno (per altri invece no) che ci sarebbero voluti anni per riassorbirla, dati i pesanti squilibri che l’avevano provocata. Siamo ormai nel sesto anno, e la fine ancora non si vede. Perseverare in politiche sbagliate allungherà ancora i tempi di guarigione.

Fonte: Repubblica del 21 novembre 2012

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