PARALISI POLITICA E PROBLEMI REALI.
Il grido di dolore delle imprese e del lavoro lanciato con forza dal palco confindustriale di Torino non ha trovato ascolto, nella giornata di ieri, da parte delle principali forze politiche. Davanti alla richiesta, avanzata da quella fetta della società civile che identifichiamo come «i produttori», le risposte di Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi sono state elusive. Il segretario del Pd, che aveva convocato un’iniziativa contro la povertà in una borgata romana, ha addirittura giudicato «indecente» la richiesta di far presto e dare un governo al Paese. Il capo del centrodestra italiano, al quale comunque va riconosciuto di aver offerto disponibilità a un governo di larghe intese, alla fine ha utilizzato la manifestazione di Bari per aprire di fatto la campagna elettorale e ricandidarsi a Palazzo Chigi.
È vero che nei rispettivi discorsi i due antagonisti hanno elencato una serie di provvedimenti economici urgenti, il primo privilegiando i temi del welfare ferito, il secondo dedicando maggiore attenzione ai proprietari di casa e agli imprenditori. Ma in entrambi i casi la scelta delle priorità è parsa come finalizzata a rispecchiarsi nel proprio elettorato, più che a individuare un programma di emergenza di interesse nazionale. Ieri né Bersani né Berlusconi hanno voluto mettersi «nei panni di tutti», hanno preferito fare da specchio alle istanze delle rispettive constituency . In questo modo però, se davvero sono iniziati i comizi elettorali, l’apertura è avvenuta nel modo peggiore: promettendo provvedimenti che non si potranno onorare e lasciando in secondo piano quel dialogo costruttivo all’insegna della serietà di cui abbiamo urgente bisogno.
Le regole della democrazia politica sono sacrosante e la società civile non può opporsi a una nuova chiamata alle urne, ma una campagna elettorale-bis condotta su questo registro si trasformerebbe in un lungo festival del populismo, per di più mascherato dall’alibi di tagliare la strada a Beppe Grillo. E allora, a costo di passare da antipatici, dobbiamo dirlo con chiarezza: lo stato dei nostri conti pubblici non consente di abolire l’Imu e di tagliare il cuneo fiscale. Anzi, con tutta probabilità saremo costretti a una manovra correttiva. Bisogna saperlo. E occorre anche avere l’onestà intellettuale di riconoscere come il governo Monti, pur tra mille errori, è riuscito ad evitare che l’Italia fosse costretta a firmare un memorandum di intesa in cambio degli aiuti del Fondo monetario. I duellanti di ieri non possono dirsi sicuri al cento per cento di conseguire lo stesso risultato. Vale la pena, dunque, imbarcarsi in un’avventura che, in virtù del Porcellum , potrebbe consegnarci un quadro politico altrettanto ingovernabile?
Dal fronte comune che le parti sociali da Torino hanno cominciato a costruire, le forze politiche potrebbero trarre un’altra ispirazione. I produttori hanno detto che in nome dell’interesse dell’economia sono disposti a riporre, anche solo per una fase, le loro bandiere. Perché la politica, invece, si sente realizzata solo quando può farle garrire al vento?
Un dialogo nella serieta’
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