Vi ricordate dell’idraulico polacco? Lo spauracchio che terrorizzò la Francia, sulla base del timore che la scarsa protezione sociale dei nuovi Stati membri erodesse le tutele dei vecchi Stati europei, ha lasciato le sue tracce nel testo della direttiva sulla liberalizzazione dei servizi. In essa, infatti, la regola del Paese d’origine, il principio con il quale si volevano garantire le quattro libertà fondamentali previste dal Trattato dell’Unione europea (circolazione di persone, di merci, di capitale e di idee) non passò.
Open Europe, think tank con basi a Londra e Bruxelles diretto da Mats Peterson, sostiene invece nel suo ultimo rapporto che una piena applicazione dell’attuale direttiva sulla liberalizzazione dei servizi insieme a ulteriori iniziative di riforma potrebbe produrre un incremento permanente del Prodotto interno lordo su base europea pari al 2,3 per cento ovvero qualcosa come 294 miliardi di euro l’anno, da aggiungere ai circa 101 già ottenuti attraverso l’attuale normativa. Il testo attuale della direttiva stabilisce che agli Stati membri non si può impedire di imporre quote, con riferimento all’offerta di attività di servizio se queste sono giustificate da ragioni di politica pubblica, pubblica sicurezza, salute o protezione dell’ambiente. Il risultato, sottolineano gli esperti di Open Europe, è che nonostante il fatto che ciò che è rimasto dell’originaria direttiva Bolkestein abbia obbligato effettivamente gli Stati membri a varare delle liberalizzazioni ed abbia perciò prodotto dei benefici economici, resta un grande spazio di ambiguità in rapporto alle barriere protezionistiche che effettivamente i Paesi possono continuare ad imporre. Tuttavia, nel febbraio del 2012, 11 Paesi europei (Gran Bretagna, Olanda, Italia, Estonia Lituania, Finlandia, Irlanda, Repubblica Ceca, Slovacchia, Spagna, Svezia e Polonia) hanno sottoscritto una lettera pro-crescita, nella quale si afferma che, dal momento che i servizi ormai rappresentano i quattro quinti della nostra economia è urgente intervenire a livello nazionale ed europeo per rimuovere quelle restrizioni che minacciano la concorrenza e puntare a potenziare lo sviluppo e l’enforcement del principio del mutuo riconoscimento nel mercato unico. A questo punto la proposta, più realistica, dei tecnici di Open Europe è: visto che ottenere un accordo più ambizioso fra i 27 Paesi membri dell’Unione Europea è impossibile e visto che, invece, su questo terreno esiste un nucleo di Paesi deciso a fare di più, perché non ricorrere alla cosiddetta procedura di cooperazione rafforzata, per rimuovere le barriere allo scambio di servizi cross border in Europa?
La procedura rafforzata, come si ricorderà, è la stessa che si sta utilizzando per estendere a livello europeo la tassa sulle transazioni finanziarie. Essa, dicono gli esperti, consentirebbe come minimo un incremento del Pil europeo di circa l’1 per cento. Gli economisti non si nascondono che ai fini del successo del progetto sarebbe essenziale “avere a bordo” la Germania, che, tradizionalmente, viene considerata riluttante a sostenere l’azione per una maggiore liberalizzazione dei servizi, per via del suo forte vantaggio comparativo nel campo manifatturiero e per via delle sue professioni strettamente regolate. Se anche al gruppo di testa dei Paesi proponenti una maggiore liberalizzazione dei servizi in Europa non dovessero partecipare Paesi come la Spagna o l’Italia e invece vi prendessero parte Germania, Austria, Danimarca, Portogallo e Lussemburgo, è la loro stima, da una normativa più apertamente liberalizzatrice si ricaverebbe una spinta alla crescita del Pil europeo fino all’1,25 per cento (158 miliardi di dollari l’anno in più).
Dai servizi un volano per il Pil
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