È POSSIBILE che nemmeno la più clamorosa vittoria elettorale della sinistra nella storia degli ultimi sessant’anni serva a placare gli animi avvelenati delle diverse fazioni? Nemmeno un pensiero serio sul perché del successo di maggio o, al contrario, della sconfitta di febbraio? Eppure, per chi, come il sottoscritto, ancora ricorda le prime elezioni amministrative dopo la Liberazione (1947), non può richiamarsi a una analoga allegra gioiosità come quella provata il 26-27 maggio e confermata ai ballottaggi del 9 e 10 giugno.
Debbo confessare che mai avrei sperato in un en plein così totale, anche se mi hanno lasciato in preda a una curiosità non esaudita le ragioni di un rovesciamento così inatteso. Una prima risposta ce la dà Ilvo Diamanti che in un approfondito instant book (“Un tuffo nel voto”, ed. Laterza, pag. 229) fornisce un ventaglio di ipotesi che riguardano, però, solo la fase politica della competizione nazionale di febbraio. Ma, vista la prossimità delle date e l’ampiezza geografica del voto, occorrerà presto un ragionamento globale e comparato. Resta, comunque, il disagio immediato per una mancata grande festa della Vittoria che un tempo avrebbe coronato un simile successo; resta la rinuncia di un segno di fusione di un gruppo dirigente che si sentisse tale, almeno una tantum; resta lo spazio vuoto di un leader capace di trasmettere al popolo di sinistra il significato unitario di una grandiosa e insperata affermazione. In questo quadro emergono con ancora maggior fastidio gli interventi polemici quanto inutili, l’emergere di malmostosità di corrente da parte di chi si sente escluso da una celebrazione che in verità non c’è stata perché nessuno se la sentiva di intestarsela, gli insulti stupidissimi contro un governo che andrebbe viceversa sostenuto. Così un nostro attento cronista riporta lo sfogo retorico di “un importante esponente del Pd” (il quale per prudenza ama l’anonimato, ndr) che se la prende contro il ministro dell’Economia: «Saccomanni non può limitarsia dire che non ci sono le coperture. Deve inventarsi qualcosa. Questo non è un governo tecnico. È un atteggiamento inaccettabile, tanto valeva tenersi Grilli e il governo Monti». Frase irresponsabile ma di larga udienza dietro cui c’è la richiesta di una “invenzione”, quale che essa sia e a cui nessuno può o vuol dare risposta ma la si rigetta sui tecnici di ieri o di oggi, oppure tout court sul governo. E allora si abbia il coraggio di dire che quell'”invenzione” era usabile fino a qualche anno fa, oggi non più. E si chiamava stampa di carta moneta nazionale, cioè di lire, che alimentassero una bella inflazione e a cascata investimenti di sostegno drogato all’economia. Se qualcuno vuol tornarci lo dichiari o, almeno, lo lasci intendere, come Grillo e Berlusconi. Vi è poi un’altra strada, più dolorosamente percorribile: ed è quella di tagli della spesa e di nuove imposte. Anche in questo caso non c’è bisogno di essere grandi tecnici per far di conto su quanto e dove si vuol tagliare e quanto e dove ci si immagina di trovare i soldi a copertura. Chi seguita a blaterare vacue ricette, è sperabile venga di nuovo bocciato dagli elettori. E in proposito ci sia consentito di azzardare una nostra ipotesi: la sconfitta del Pd bersaniano, con la primitiva illusione di una maggioranza di sinistra (con Vendola & C.), è ascrivibile a una linea che dopo aver ostacolato un “governo del Presidente”, si è speso, perdendo la faccia, per conquistare l’appoggio dei grillini; mentre il trionfo riformista di giugno, assieme a tante altre cause “territoriali”, va cercato nelle aspettative generate dalla politica governativa di Enrico Letta in una linea che non può essere confusa con le “larghe intese”, ma rappresenta il tentativo di salvare l’Italia, convogliando anche gli interessi di sopravvivenza di Berlusconi, non certo in una posizione egemone, a meno che i “cretini di sinistra” non gliela regalino.
Sempre scontenti, malgrado la vittoria
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