L’accusa arriva daFabrizio Saccomanni: le agenzie rating sono destabilizzanti perché hanno un ruolo pro-ciclico, i loro giudizi cioè non fanno altro che riprodurre ed enfatizzare la situazione esistente non per descriverla, ma per ipotecare il futuro. E’ qui l’errore di fondo, concettuale, che si aggiunge a tutte le altre pecche emerse in questi anni e denunciate dal Congresso americano come da eminenti studiosi indipendenti.
La prima delle quali è il conflitto d’interesse tra controllato e controllore.
Tesoro triste – Saccomanni fa il ministro e si è sentito piccato, anzi colpito personalmente perchéStandard & Poor’sha snobbato completamente le misure prese dalgoverno Lettaper sostenere l’economia, lo stesso rinvio dell’Iva e dell’Imu viene calcolato solo in termini di mancati introiti, non di effetto sul reddito disponibile che sta risalendo sia pur lentamente come mostrano Istat e Banca d’Italia. Quelli di S&P insomma sono dei contabili, non degli economisti.
Le tigri – È vero che bisogna maneggiare con cura le critiche dei politici alle agenzie di rating, al Fondo monetario internazionale o a chiunque dica verità scomode. Ma Saccomanni è un uomo della Banca d’Italia che conosce bene i suoi polli ed è un economista che ben dieci anni fa, ante guerra si potrebbe dire, ha analizzato i meccanismi perversi della finanza internazionale nel suo libro «Tigri globali, domatori nazionali». E poi, qualsiasi cosa dica S&P, nessuno potrà mai dimenticare che a Lehman Brothers nel 2008 pochi mesi prima del crac aveva assegnato AA+. Tutti si possono sbagliare anche se c’è errore ed errore, ma prima di riprendere a dare voti bisogna almeno fare ammenda se non cambiare mestiere, almeno per qualche annetto.
Gioco costoso – Basterebbe non curarsi di loro, si sente dire. E magari, fra poco, cadranno davvero nell’oblio. Ma quando sono in gioco, non delle singole imprese, bensì interi Paesi, le cose non sono tanto semplici. Un giudizio di S&P costa soldi ai contribuenti e può provocare una tempesta politica, come è già accaduto più volte. Si possono contrapporre altre agenzie in una sorta di gioco competitivo, ma prima di ottenere lo stesso volume di fuoco delle big 3 ci vogliono decenni.
E allora che fare? – Semplice, basta applicare un criterio generale, quello della responsabilità. Chi sbaglia paga. Aspettiamo la fine dell’anno, se S&P ha ragione, l’Italia paga con spread più alti e una nuova stangata. Se ha torto, l’Italia faccia causa, come fa Obama, chieda i danni o, a seconda della gravità dell’errore, il ritiro della licenza ad operare in Italia. Una iniziativa del governo e della Consob (alla quale spetta la vigilanza) non del procuratore di Trani. Le tigri saranno globali e i domatori solo nazionali, ma molto dipende dalla lunghezza della frustra e dalla forza delle scudisciate.
Se S&P ha sbagliato i conti dovra’ essere costretta a risarcire i danni
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