• sabato , 23 Novembre 2024

LA TERZA ONDATA DELLE PRIVATIZZAZIONI ED IL SILENZIO ASSORDANTE DELL ITALIA

Nel novembre 2013 il Governo Letta ha iniziato un programma di valorizzazione e privatizzazione del patrimonio pubblico con il duplice obiettivo: a) destinarne il gettito alla riduzione del debito pubblico; b) aumentare l’efficienza del sistema economico in termini di produttività e competitività e contribuire, quindi, (dopo sette anni di recessione e circa dieci di stagnazione) alla crescita economica. Nel febbraio 2014, nella presentazione del proprio programma di governo al Parlamento, l’Esecutivo Renzi (che è succeduto a quello guidato da Enrico Letta) , ha manifestato la volontà di accentuare quanto delineato da chi lo ha preceduto. Questa analisi viene redatta mentre il nuovo Esecutivo sta compiendo i primi passi. Di conseguenza, più che un esame di quanto fatto, è un’indicazione di quanto si deve fare in materia di privatizzazioni, qualsiasi altra azione di politica economica venga presa – per rendere l’Italia più libera e facilitare, in tal modo, il ritorno su un percorso di crescita economica, civile e sociale.
“Un programma coerente di privatizzazioni – scrive Privatization Barometer Report (Fondazione Eni Enrico Matteo, 2013) riduce progressivamente l’ambito di discrezionalità della politica sulle imprese, aumenta la credibilità della politica economica e quindi da ultimo migliora il rating di mercato dello Stato ,con ricadute positive sugli spreads.” Non a caso, l’UE ha preteso dal Governo greco un ambizioso piano di privatizzazioni per dare via libera alla nuova tranche di aiuti “.
Un programma breve termine (12-18 mesi) per l’Italia è stato delineato nel discorso del Presidente del Consiglio Letta alle Camere e precisato complessivamente la cessione di quote societarie dovrebbe far entrare tra i 10 e i 12 miliardi di euro nelle casse dello Stato nel 2014. Le prime dismissioni avrebbero riguardato riguardano una partecipazione di controllo di Poste Italiane e Enav (deliberata il 24 gennaio 2014 dal Consiglio dei Ministri) a cui faranno seguito, nei prossimi mesi, quelle di Sace e Grandi Stazioni (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane), ei quote non di maggioranza di Stm, Fincantieri e Cdp Reti, nonché di Eni. A queste indicazioni, occorre aggiungere la privatizzazione per almeno 500 milioni l’anno di patrimonio immobiliare. Secondo un’analisi effettuata dall’Università Bocconi (Puato,2013), l’ipotesi di ricavi dalla cessione di quote societarie dello Stato può potenzialmente raggiungere i 90 miliardi di euro (ovviamente su un arco pluriennale); ciò non tiene conto di circa 6000 Spa, Srl, Fondazioni ed altro partecipato da un numero analogo di enti locali. Di recente Glocus e l’Istituto Bruno Leoni hanno tracciato un percorso possibile per attuare un programma di denazionalizzazioni più ambizioso di quello sino ad ora annunciato dal Governo (Lanzillotta, Stagnaro 2013). Queste indicazioni suggeriscono che dopo tre anni di virtuale stasi nel programma di privatizzazioni , si sta creando il clima e ponendo le basi per un rilancio della nazionalizzazione del patrimonio pubblico – quanto meno di quello ‘statale’ – sia delle partecipazioni societarie sia delle proprietà immobiliari.
Il discorso programmatico del Presidente del Consiglio Renzi non ha indicato esplicitamente le privatizzazioni tra le priorità del Governo evidenziate invece come miglioramento della scuola, riforma della normativa sul lavoro , riduzione del cuneo fiscale, saldo dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese, riassetto del sistema giudiziario e importanti cambiamenti istituzionali anche costituzionali. E’ probabile che abbia recepito non scartato le indicazioni del precedente Esecutivo. Al momento in cui viene scritto questo capitolo non è possibile formulare un giudizio.

La terza ondata delle privatizzazioni
Ciò si inquadra in un contesto in cui, analizzando i lavori dell’Ocse, del Privatization Watch, della Fraser Foundation, del Privatization Barometer e della Banca mondiale (per una sintesi, oltre ai documenti delle organizzazioni citate, la sintesi in’State Owned Assets 2014, ed in Obinger , Schmitt e Zohlnofer, 2013), è in corso, a livello mondiale, una terza “fase” od “ondata” di denazionalizzazioni. La prima fu essenzialmente europea; iniziò sulla scia delle politiche liberiste del Governo Thatcher all’inizio degli anni Ottanta, anche se arrivò in Italia solamente circa dieci anni più tardi, in parallelo, almeno temporale, con quella nei Paesi dell’Europa Orientale e nella stessa Russia. La seconda è avvenuta all’inizio del ventunesimo secolo, dopo la breve crisi delle Borse coincidente l’esplosione della bolla “dot.com economy” e prima della più vasta e più profonda iniziata nel 2007 e da cui non siamo ancora usciti. La terza è in atto da un paio di anni e ha varie determinanti: la politica monetaria espansionista negli Usa e in Europa per controbilanciare la crisi finanziaria ed agevolare la riprese dell’economia reale, i fondi sovrani di Stati con ampie riserve minerarie, il disavanzo dei conti delle partite correnti Usa che gonfia le bilance dei pagamenti altrui, l’esigenza (specialmente in Europa) di smaltire il debito sovrano.
Nel corso del 2010, a livello globale i governi hanno incassato circa 160 miliardi di euro. Si tratta di uno dei valori più alti mai registrati nella storia, secondi solo ai 184 miliardi di euro incassati nel 2009, un valore allora comunque da interpretare con cura poiché include il riacquisto delle azioni da parte delle banche americane che da solo valeva 118 miliardi di euro. Nel mondo intero, il 2010 è comunque l’anno che sembrava un record difficilmente superabile: la cessione del 15% di Petrobras, che ha fruttato al governo brasiliano 52,4 miliardi di euro, è la più grande offerta pubblica di tutti i tempi, così come l’offerta pubblica iniziale di Agricultural Bank of China per 16,5 miliardi di euro. Il collocamento da 15 miliardi di euro di General Motors, che ritorna sul mercato dopo la nazionalizzazione del 2008, è la più grande IPO mai realizzata sulle borse americane. Se guardiamo gli aggregati, in vetta alla classifica ci sono gli Stati Uniti, con quasi 36 miliardi di privatizzazioni, ma davanti a tutti ci sono i BRICs (Brasile, Russia, India, Cina), con 80 miliardi, la metà del totale . I paesi dell’UE hanno realizzato operazioni per 33,1 miliardi di euro, pari al 20,6% del totale. La Francia dei “campioni nazionali” è il Paese europeo che ha privatizzato di più; nel corso del 2010, con circa 10,5 miliardi di euro di cessioni, seguita dalla Polonia e dal Regno Unito. Soprattutto analisi monografica degli effetti delle privatizzazioni in America Latina (Afonso, Romeru-Baruttiera, Consalve, 2014;) ed in Russia (Radygiyn, 2014) fanno toccare con mano i benefici delle privatizzazioni sulla crescita. Studi monografici stranieri, al tempo stesso, mostrano i limiti delle ‘privatizzazioni parziali’ quali realizzate in certi settori in Italia ( Asquer, 2014).
L’unico operazione significativa su cui può contare l’Italia è la citata cessione del 30% di Enel Green Power che con un controvalore di 2,6 miliardi di euro . Nel 2012, mentre in Italia il Governo Monti le provava tutte per privatizzare l’Ente Ufficiali in congedo (senza peraltro riuscirvi), nel resto del mondo sono state realizzate denazionalizzazioni per circa 250 miliardi, superando il record del 2010; oltre dieci volte, in termini nominali, di quanto realizzato nel 1998, considerato nei testi universitari “l’anno d’oro” della prima ondata.
E’ utile mettere in relazione il ritorno delle privatizzazioni nel mondo con le tendenze profonde delle economie emergenti. I governi dei Paesi emergenti approfittano delle buone condizioni di mercato e della forte crescita delle loro economie per valorizzare attraverso le privatizzazioni le loro imprese pubbliche, aprendole ulteriormente al capitale privato nazionale e internazionale, rendendole più solide finanziariamente e quindi più competitive. Le privatizzazioni dei paesi avanzati sono invece legate alla debolezza della congiuntura e alle conseguenti condizioni critiche della finanza pubblica. A fronte del rischio di insolvenza degli stati sovrani, i governi occidentali rilanciano quindi le privatizzazioni, unica politica che consente di realizzare il necessario deleveraging (riduzione dell’indebitamento) senza incidere sulla spesa pubblica e sul welfare, fondamentale per la tenuta sociale in tempi di crisi.
Questa ‘terza ondata’ ha due caratteristiche che la differenziano dalle due precedenti: a) il ruolo dei Paesi emergenti; b) la cessione di patrimonio immobiliare e demaniale.
Per quanto riguarda i Paesi emergenti, ad esempio, la Cina ha messo in vendita quote di minoranza di banche, imprese del settore energetico, società di engineering ed anche dell’audivisivo. Il Brasile sta venendo quote di aeroporti per finanziare un programma d’investimenti di 20 miliardi di dollari Usa equivalenti.
Secondo un’analisi comparata del Fondo monetario internazionale, in Italia il valore degli asset non finanziari sotto il controllo delle pubbliche amministrazioni ammonta all’80% del Pil; la metà è nelle mani delle autonomie locali. È un campo dove non è facile muoversi, come dimostrano , tra l’altra, i numerosi tentativi effettuati in Italia. Negli Stati Uniti, guidati da Barack Obama (il quale non ha certo la reputazione di essere iper-liberista), il Federal Bureau of Land Management ha recentemente pubblicato una mappa del demanio federale da considerarsi in vendita; alcuni dei singoli Stati dell’Unione hanno fatto molto di più, cedendo (con le dovute garanzie ambientali), anche aree ‘protette’ sotto il profilo ambientale. In Gran Bretagna, dall’8 di gennaio si possono acquistare terreni e immobili demaniali sul mercato aperto tramite un meccanismo di aste telematiche.
Questo quadro indica che l’Italia rischia di arrivare tardi, quanto meno sotto il profilo finanziario. Non si può pensare che l’attuale situazione mondiale di liquidità resti a lungo – ci sono già cenni di aumento dei tassi d’interesse. Arrivare quando il fiume dell’equity diventa secco, vuol dire non vendere o mettere il banchetto dei supersaldi.
Un’occhiata a ritroso al ‘caso Italia’
E’ utile, a questo punto, dare un’occhiata a ritroso sul processo di privatizzazioni in Italia, utilizzando , in gran misura, i rapporti annuali che da quasi tre lustri produce Società Libera. Non sono certo mancate altre analisi, italiane e straniere; ad esempio, la Fondazione Eni Enrico Mattei ha condotto periodicamente studi di qualità in materia e, prima delle elezioni del 2008, l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato un Manuale delle Riforme per la XVI Legislatura (che faceva perno su privatizzazioni e liberalizzazioni. I rapporti di Società Libera hanno il vantaggio della continuità e della omogeneità di approccio.
Anche in Italia, prima della nascente ‘terza fase’, ci sono state due fasi che hanno marcato il processo di privatizzazioni negli Anni Novanta: quella dal 1992 al 1995 di approntamento degli strumenti e quella dal 1996 al 2001 di realizzazione della riduzione del peso delle imprese a controllo e partecipazione statale nell’economia. All’inizio di questo secolo, ossia nel 2000 a dieci anni circa dall’avvio del programma molto restava ancora da cedere, in termini sia di partecipazioni di controllo, sia di quote minoritarie. Lo Stato – stimava Società Libera- “potrebbe ottenere circa 108.000 miliardi dalla vendita delle quote ancora detenute in società solo in parte cedute, ed un ricavo nettamente più elevato dalla cessione delle partecipazioni di maggioranza in altre aziende, quali le imprese operanti nei settori della cantieristica navale, navigazione e difesa, le Ferrovie, le Poste, e la Rai”. Naturalmente, queste stime presupponevano che si fosse superata la fase di cedimento dei mercati azionari su scala mondiale, allora in corso a ragione dell’implosione della bolla della “dot.com economy”.
Nell’ipotesi in cui fosse stata portata a compimento la cessione delle attività produttive commerciabili, lo Stato avrebbe potuto chiudere l’era delle partecipazioni statali con un guadagno molto consistente, anche se calcolato al netto dell’indebitamento dalle stesse indotto. Inoltre, avrebbe potuto disporre di mezzi per abbassare il debito pubblico in essere per un importo stimabile attorno al 10 %, senza contare i proventi di un’eventuale vendita delle aziende per i servizi pubblici locali. Ma perché ciò si realizzasse sarebbe stata necessaria, a parte un miglioramento delle condizioni di mercato, una forte determinazione a dismettere la proprietà e a reinterpretare il ruolo dello Stato nell’economia. Per riprendere un verso cruciale tra i 12.000 di cui si compone il Faust di Wolfgang Goethe Es irtt der Mensch/solang’ er strebt – l’uomo può sbagliare nell’”impegno totale”, ma per raggiungere obiettivi concreti è essenziale tale impegno. Utile sottolineare che streben è un verbo tedesco per cui non esiste un equivalente italiano: vuole dire darsi da fare con una tenacia che rasenta la cocciutaggine.
Allora il Governo in carica sembrava intenzionato ad andare avanti in queste direzioni: il Dpef 2001 -2003 prevedeva, infatti, di realizzare 120.000 miliardi di introiti nel corso del quinquennio che stava per iniziare, un programma graduale giustificato alla luce degli obiettivi che si è posto di “rafforzare gli assetti produttivi nazionali” e di realizzare guadagni di efficienza nelle società da porre in vendita. “Un programma di gradualità nelle vendite va, pertanto, bilanciato – avvertiva Società Libera – con un maggiore impegno nel superare le manchevolezze del contesto economico ed istituzionale emerse nel processo di privatizzazione”. Prima fra esse era la sperequazione esistente in termini di assetto concorrenziale nei settori in cui le imprese pubbliche continuavano a godere di un rilevante potere di mercato. Maggiori benefici per l’economia sarebbero potuti derivare da una politica attiva volta a favorire l’ingresso di nuovi concorrenti sul mercato e a livellare le posizioni concorrenziali.
Altre carenze andavano sanate su tre fronti: contendibilità della proprietà delle società, trasparenza dell’informazione disponibile per i mercati e protezione degli azionisti di minoranza. Una revisione dei vincoli all’OPA e dei limiti di possesso azionario, un’integrazione delle regole di controllo societario al fine di ottenere completezza, tempestività e trasparenza nell’informazione diretta ai mercati, e un potenziamento dei poteri d’intervento della Consob, inclusi alcuni poteri di sanzione, apparivano passi necessari per elevare l’efficienza allocativa dei mercati. In questa azione sarebbe auspicabile che si perseguisse l’allineamento delle regole interne alle best practices in vigore tra i paesi dell’euro; ancor più desiderabile sarebbe un approccio diretto a stabilire a livello di area dell’euro un unico modello generale di corporate governance per le società. Verso le imprese ancora da privatizzare si richiedeva, invece, un’azione più intensa volta a responsabilizzare il management nel perseguimento dell’efficienza, benché sia difficile attendersi salti di produttività, data la debolezza dei meccanismi di responsabilizzazione del management, quando sono in mano politica. Nel settore bancario, il problema di una maggiore efficienza nell’allocazione delle risorse si intrecciava tra l’altro con il nodo del ruolo ancora preponderante delle fondazioni. Allora non si avvertivano quelle barriere ideologiche, sociali e strutturali che negli anni Novanta avevano reso arduo e a tratti impervio il cammino verso le privatizzazioni. Ma stava anche venendo meno la forte spinta esterna ad andare avanti. Rimaneva una pressione indiretta, meno evidente, che derivava dall’inarrestabile processo di apertura dei nostri mercati, e che non necessariamente nel breve periodo spingeva a ricercare maggiore efficienza e competitività a livello sia di impresa sia di sistema.
Come indicato nei Rapporti precedenti, i 13 anni appena conclusi possono essere divisi in due fasi. Nella prima, il Governo ed il resto società hanno cercato di chiudere un capitolo importante dell’irta via delle privatizzazioni. Si è portata a conclusione la liquidazione dell’IRI, si è definito il nuovo regolamento delle fondazioni bancarie e soprattutto si è fatto ricorso a tecniche innovative per predisporre la cessione a privati, anche in campi come la vendita di immobili di proprietà pubblica ed ad utilizzare lo strumento dei fondi pensione (allora in via di costituzione e regolamentazione) pure al fine di favorire le denazionalizzazioni. La strada sembrava, ed era, tutta in salita ma era promettente anche in quanto il Dpef 2003-2006 indicava quattro precise direzioni di marcia: a)vendita entro 18 mesi dell’insieme delle partecipazioni ritenute non strategiche; b) cessione di una quota delle partecipazioni più importanti che non intacchi il controllo sulle imprese; c) ristrutturazione delle aziende ancora in mano pubblica per prepararle alla vendita nel medio periodo; d) interventi per promuovere e tutelare la concorrenza, specialmente nel settore dei servizi di pubblica utilità. Non venia esplicitata la ponderazione tra questi quattro principali obiettivi, ossia quella che gli economisti chiamo la funzione-obiettivo di una politica economica , sia essa nazionale o di settore oppure ancora attinente ai fattori. Inoltre, ci sarebbe voluta tenacia e coraggio ( e cocciutaggine nei confronti di interessi particolaristici costituiti, anche legittimo) per portare avanti un programma di tale sorta. Ma, come si è detto, il verbo streben non ha equivalenti in italiano.
Il 2007 sarebbe dovuto essere l’anno (ove non del completamento) quanto meno di un considerevole progresso nel processo di privatizzazione iniziato negli Anni Novanta. E’ stato, invece l’anno delle privatizzazioni mancate a ragione della crisi economica internazionale che, cominciata negli Stati Uniti, ha comportato un ritorno alla grande dell’intervento pubblico, in una prima fase, nel settore bancario e, successivamente, nel resto dell’economia. Non sono mancati spiragli ed opportunità nelle strategie di uscita dalla crisi economica , nonché suggerimenti e proposte su come tornare a privatizzare.
Tuttavia, le Relazioni annuali sulle privatizzazioni al Parlamento del Ministero dell’Economia e delle Finanze, MEF; mostrano una tendenza marcatamente decrescente: la più recente, purtroppo, copre il periodo 2007-2010 riguarda principalmente vendite di diritti di opzione nell’ambito di operazioni di aumento di capitale (Finmeccanica, Enel, Seat), scambi di azioni tra Ministero e Cassa Depositi e Prestiti , e cessioni d parte del Gruppo Fintecna per un totale di poco meno di un miliardo di euro nei quattro anni presi in considerazione – appena 12 milioni circa nel 2010 (senza contare la cessione del 30% di Enel Green Power non trattata nella Relazione in quanto non riguarda una privatizzazione in senso stretto). Nel 2011, nel nostro Paese le privatizzazioni sono state insignificanti : non si sono trovati acquirenti per la Tirrenia e l’apertura al mercato del settore dei servizi pubblici locali è stata bloccato da un referendum che ha lasciato il comparto in un guazzabuglio normativo. Nel 2012 è stata tentata, ma non realizzata, la privatizzazione dell’Ente Ufficiali in Congedo. Nel 2013 non ci sono stati neppure tentativi, nonostante il record finanziario delle privatizzazioni a livello mondiale.
Come spesso accade, l’Italia è un caso a sé stante. L’esito del cosiddetto referendum sulla privatizzazione dell’acqua, nonostante gli ottimi risultati di gestione delle acque da parte di imprese private nella vicina Francia, ha reso più difficile la riapertura del fascicolo ‘privatizzazioni’ paradossalmente proprio nel momento,in cui un piano aggressivo di privatizzazioni avrebbe dovuto essere in cima alla lista per risolvere , o almeno alleviare, il nodo dello stock di debito pubblico e rimettere in moto l’economia italiana.
Necessità di una nuova ondata italiana di privatizzazioni?
E’ iniziata nel gennaio 2014 una ‘nuova ondata italiana delle privatizzazioni”? Il Consiglio dei Ministri del 24 gennaio 2014 ha deciso – dopo due anni di letargo in materia di denazionalizzazioni – di dare l’avvio ad una fase di ‘privatizzazioni’, iniziando da quote di minoranza di Poste Italiane ed Enav e facendo intendere tra breve verranno cedute nuove quote dell’Eni.
Invece, prendendo a prestito il titolo di un libro di René Dumont degli Anni Sessanta Dumont, 1962) , occorre dire che ancora una volta L’Italie est mal partie perché le due parziali ‘privatizzazioni’ non contribuiscono che in misura insignificante alla riduzione dello stock di debito pubblico, mantengono saldamente in mano pubblica la gestione dei due enti (non dando, quindi, neanche l’illusione di un possibile miglioramento dell’efficienza), viene ignorato l’unbundling (ossia la necessità di separare attività distinte in aziende anche esse distinte: è necessario per Poste Itraliane, di una netta separazione tra la linea d’affari tradizionale (recapitare lettere e colli) e le attività bancarie- finanziarie, nonché quelle commerciali. C’è il pericolo che si ripetano tutti gli errori compiuti nelle denazionalizzazioni dei Paesi in via di sviluppo nella ‘ prima ondata’ di privatizzazioni e documentate nel volume del 2002 della Banca Mondiale ‘Bureaucrats in Business: the Economics and Politics of Government Ownership’ (World Bank, 2002) Con l’aggravante che la ‘privatizzazione’ di Poste Italiane, così come prospettata, ha tutto il sapore di un’operazione finalizzata a celare alle autorità europee aiuti di Stato ad un’Alitalia, che a detta di dirigenti (che vogliono restare anonimi) ha in cassa liquidità per arrivare solo al 28 febbraio. Quindi, per alimentare altri ‘bureaucrats in business’, che hanno indossato la casacca di patrioti nella speranza che qualche Emiro li tragga d’impaccio.
Non propongo la lettura dello studio della Banca Mondiale per celia. Leggendo il volume di dodici anni fa, si possono individuare i correttivi per fare sì che operazioni, pur nate con il piede sbagliato, vengano messe su un percorso positivo.
In primo luogo, occorre pensionare il gruppo dirigente di due enti, particolarmente di Poste Italiane , bureaucrats troppo a lungo in business.In secondo luogo, l’unbundling è essenziale. E’ chiara per percorso. Un lavoro dell’IBL (Stagnaro 2014)dettaglia :“la privatizzazione di Poste Italiane è certamente possibile e auspicabile, ma di non semplice realizzabilità, perché la sua natura conglomerale costituisce un ostacolo alla vendita immediata e integrale, che richiederebbe uno “spezzatino””. Lo si può tramite “una trasparente societarizzazione delle diverse attività – attualmente Bancoposta è separato dai servizi postali solo dal punto di vista contabile – con un chiaro ruolo attribuito alla rete degli uffici postali, vero asset strategico del gruppo attraverso cui vengono commercializzati prodotti e servizi”. Altri Paesi che hanno proceduto alla privatizzazione dell’operatore postale pubblico, che presentavano però un business postale in forte attivo, hanno creato un sistema di governance con una rete di uffici postali separata dalle società di business che commercializza, non necessariamente in esclusiva, i prodotti e i servizi di tali società. Tale soluzione non implicherebbe la trasformazione di Bancoposta in una banca tout court, evitando così “il passaggio assai oneroso dei dipendenti degli uffici postali al settore bancario, e lascerebbe allo Stato la possibilità di sfruttare la rete postale per erogare propri servizi ai cittadini“.
E la conclamata ‘partecipazione dei lavoratori’ all’azionariato? In primo luogo, la privatizzazione delle Poste, se effettiva avrà un effetto positivo sulla compagnia ed ai suoi azionisti, se le apre effettivamente accesso ai capitali privati e se di saranno aumenti di competitività trasformando, anche grazie ad Internet, il servizio in una vasta operazione di logistica integrata ad alta tecnologia. Altrimenti i lavoratori-azionisti rischieranno di trovarsi con un palmo di naso, come avvenne ai lavoratori ed ai correntisti di diverse banche quando vennero collocate sul mercato. In secondo luogo, se non pensiona il management e non si cambia la governance i lavoratori rischieranno di fare le comparse.
Quando veniva insediato il Governo Renzi, era lecito e doveroso chiedersi che fine stesse facendo il programma di privatizzazioni delineato lo scorso novembre dal Governo Letta. Era un programma timido che avrebbe dovuto fare entrare nelle casse dello stato tra i 10 e i 12 miliardi di euro, di cui la metà sarebbe stata destinata a ridurre lo stock di debito pubblico e l’altra metà a ricapitalizzare la Cassa depositi e prestiti. Il 12 febbraio, il ministro dell’Economia e delle Finanze uscente, Fabrizio Saccomanni, sul punto quasi di lasciare il dicastero, stimava in 8-9 miliardi i ricavi possibili da privatizzazioni nel 2014. Nelle 57 pagine del documento Impegno Italia, presentato sempre il 12 febbraio, alle privatizzazioni è dedicato un cenno fugace (senza quantizzazioni) al par. 31 (Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2014). Ciò vuole dire che nell’arco di meno di due mesi, le privatizzazioni si sono “rimpicciolite”.
Se ne è soprattutto ridotta la sfera di azione. Riprendendo la documentazione diffusa a fine novembre, il programma sarebbe dovuto decollare con la cessione delle partecipazioni di controllo di Sace e Grandi Stazioni (partecipata, a sua volta, al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato), seguite da quote non di maggioranza di Enav, Stm, Fincantieri e Cdp Reti. Inoltre, si sarebbe ceduto un pacchetto del 3% di Eni – “ci consente di mobilizzare 2 miliardi senza scendere sotto il 30% e senza dunque perdere il controllo della società”, è stato detto il 21 novembre. In “secondo turno” si sarebbe messo mano a Poste e Fs. La via più probabile da percorrere, in questo caso, sarebbe stata la quotazione in Borsa delle società o soltanto di una parte, che nel caso di Fs sarebbe il Frecciarossa, ovvero l’alta velocità.
Secondo le dichiarazioni del 12 febbraio -, l’attenzione sembra essere solo su Poste ed Enav. La “privatizzazione” verrebbe effettuata non tramite la strada principe della quotazione in Borsa, ma attraverso la cessione di quote ai dipendenti (i cui rappresentanti entrerebbero negli organi di gestione), secondo uno schema tipico, e vetusto, di quello che un quarto di secolo fa veniva considerato il “capitalismo renano” (Albert 1991).
In effetti, il tema delle privatizzazioni si sta intrecciando con quello di circa 600 cariche in scadenza in enti e società a partecipazione pubblica. Saccomanni ha dato incarico a due imprese internazionali di “cacciatori di teste” di cercare canditati con le qualifiche appropriate in tutti gli Stati dell’Unione europea. Inoltre, un comitato di tre saggi di alto spicco avrebbe vagliato il lavoro dei “cercatori di teste” ed esaminato in particolare l’onorabilità dei potenziali candidati.
Il nuovo Esecutivo avrebbe in mente una strada differente: un’agenzia “indipendente” alla quale affidare il compito di valutare il patrimonio netto delle aziende al 31 dicembre 2013 e confrontarlo con il valore che avevano a inizio mandato, nonché identificare conflitti di interesse passati e presenti. Queste informazioni dovrebbero essere messe a disposizione di una commissione composta da due rappresentanti del governo, due rappresentanti delle commissioni Bilancio di Camera e Senato e tre rappresentanti dei consumatori. Senza entrare nel merito di questa procedura (rispetto a quella già in corso), sembra evidente che comporterà tempi piuttosto lunghi – mentre le 600 cariche sono in scadenza tra aprile e maggio e la normativa sulla “prorogatio” prevede un termine di 45 giorni.
L’accavallarsi della “ondata” di nomine con le privatizzazioni, potrebbe fare sì che le seconde subiscano rinvii. O più esattamente che vengano realizzate unicamente la cessioni di quote (di minoranza) di Poste ed Enav.
È il caso di stappare bottiglie di champagne? Forse di prosecco, che il Governo Monti non è riuscito a privatizzare neanche l’Ente Ufficiali in Congedo. Ma si tratta di vere privatizzazioni se le burocrazie statali (e le correnti politiche) mantengono il controllo? Inoltre, senza unbundling, Poste continua ad assomigliare a un coreano chaebol. Ed Enav è un monopolio tecnico.Quindi, siamo alle prese con privatizzazioni finte o, al meglio, “desaparecide”. È comunque “desaparecido” il Comitato per le Privatizzazioni, istituto con quel decreto legge “Salva Roma” che ha avuto maligna sorte.

Privatizzazione Rai: la madre di tutte le denazionalizzazioni
Nell’ipotesi il Governo Renzi segua l’impostazione del suo predecessore in materia di privatizzazioni, e , auspicalmente, la ‘road map’ tracciata dall’Istituto Bruno Leoni e da Glocus, ci sono due comparti che devono essere aggiunti con urgenza a quanto già indicato : la Rai ed il ‘capitalismo regionale e municipale.
Quella della Rai è ‘la madre di tutte le privatizzazioni’ per il ruolo che ha l’informazione nel mercato. Se un tempo , la statalizzazione della Rai poteva essere giustificata come monopolio tecnico da forze politiche non democratiche, il passaggio dall’analogico al digitale terrestre ha reso questo argomento risibile. Lo ha ribadito lo stesso Romano Prodi il 25 febbraio in un convegno a Bologna nel corso del quale ha ricordato i tentativi fatti nel 1997 , falliti a ragione dell’opposizione del ‘partito Rai’. In nessun Paese, neanche nelle dittature dell’Asia centrale, esiste una radio-tv di Stato con 15 canali; la stessa BBC (che ha governance ben differente da quella della Rai ed un pubblico mondiale dato che opera in inglese) ha soltanto cinque canali e pochissima pubblicità.
Sono decenni che la pubblicistica europea si esprime in materia (Wildman, S. S.; Siwek, S. E, 1987) . In edizioni precedenti di questo Rapporto abbiamo illustrato le proposte formultate Steve H. Hanke. I suoi titoli includono; Professore di Economia applicata e Direttore dell’Istituto di Economia applicata, Economia internazionale e Imprese alla Johns Hopkins University di Baltimora; Senior Fellow e Direttore del Progetto “Troubled Currencies” (valute malate) al Cato Institute di Washington, D.C.; Senior Advisor alla Renmin University dell’International Monetary Research Institute cinese a Beijing; Special Counselor del Center for Financial Stability a New York; soprattutto è noto come specialista in privatizzazioni. Si devono a lui, tra l’altro, i programmi che hanno portato alla denazionalizzazioni di televisioni e radio in numerosi Paesi. E’ certamente distinto e distante dalle nostre beghe.
Una SpA di Statoper la tv , come si è detto, era comprensibile come monopolio tecnico sino all’inizio degli anni cinquanta. Da allora non lo è più. Tanto meno lo è da quando il digitale terrestre rende possibile centinaia di canali per svolgere “servizio pubblico” in linea con le esigenze dei territori. Non solo per finanziare la Rai si utilizza l’imposta di scopo – il canone – più odiata dagli italiani, ma, voltate le spalle a una funzione sociale e culturale, alla stessa funzione di intrattenimento gli italiani hanno risposto voltando loro le spalle alla Rai, come dimostrato dagli ascolti all’ultimo (costosissimo) Festival di Sanremo. La stesse liti tra dirigenti Rai non interessano più nessuno, come mostrato dal poco spazio dedicato all’ultima dalla stampa nazionale.
Può essere il momento di riproporre un’idea che con Steve H. Hanke lanciai (senza grande successo) alcuni anni fa. Visto il tracollo dei conti e degli ascolti, e il vento di novità, ora ha maggiori chance. Nella situazione attuale – ammettiamolo con franchezza – la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili (sempre che l’avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare a essere la sola del settore in Italia, in Europa e – perché no?- nell’universo mondo).
Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani, le cui pensioni Inps sembrano essere sempre più striminzite. Il secondo consiste nel renderla una vera public company. Il Partito democratico tanto si è speso per il secondo pilastro previdenziale e per le public company che dovrebbe esserne lieto. Il precedente importante è il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni e i fondi pensioni in vaste aree dell’America Latina, dell’Europa Centro Orientale e dell’Asia.
In pratica, ciò vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Uno semplicissimo: l’età anagrafica, quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo, dunque, titolo a un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale, però, manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti.
Unica regola: pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento supera certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano – tanto generalisti quanto specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il Partito Rai vorrebbe tornare a tempi staraciani o leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali).
In alternativa, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali – come avviene con successo nel settore del cinema.
È un miraggio? No. È la modernizzazione, bellezza!
Il ‘socialismo reale’ comunale e regionale
Anche questo è tema affrontato nei precedenti Rapporti . E’ urgente dare al governo della Nazione gli strumenti per agire nella selva oscura del “capitalismo regionale e comunale”, nell’ipotese che quello provinciale chiuda con le Province a cui è collegato. Nessuno sa quante sono le società, le aziende e gli enti partecipati da Regioni ed autonomie locali. Secondo le stime più accreditate quelle “primarie” sarebbero almeno 6000. Ci sono poi le società di secondo grado, “figlie” delle prime, in merito al cui numero gli istituti di analisi e ricerca hanno rinunciato ad azzardare stime.
Si pensa male, ma probabilmente ci si azzecca, se si ritiene che la ragion d’essere di numerose di queste società figlie sia quella di aggirare (entro certi limiti) la normativa su appalti e commesse. Alcuni “scandali” e vicende giudiziarie recenti suggeriscono che questa interpretazione non è tanto lontana dalla realtà. Occorre aggiungere che in molti casi, i sindacati non sono usciti particolarmente bene da queste storie; anche su insistenza sindacale, i documenti del CNEL in questa materia auspicano non la privatizzazione (linea tenuta dall’OCSE) ma la liberalizzazione del “capitalismo regionale e comunale”.
La situazione non sarebbe preoccupante se come auspicato da Giovanni Montemartini in età giolittiana le “municipalizzate” o simile portassero un flusso di cassa positivo netto con il quale Regioni e Comuni potessero dedicare risorse ai più deboli e poveri. Sembrano, invece, essere una fucina di debiti. Secondo la banca dati del Dipartimento della Funzione Pubblica (consultabile on line) i risultati economici delle imprese del settore sono crollati del 77%: nel solo 2011, ultimo anno monitorato, solo il 56% delle società locali ha chiuso in utile, e meno del 7% degli utili è stato generato da aziende interamente pubbliche. Secondo la Corte dei Conti ed il dossier predisposto dal servizio studi della Camera dei Deputati (Camera dei Deputati 2012), l’indebitamento netto di questo “capitalismo delle autonomie locali” si porrebbe sui 35-40 miliardi, un fardello non indifferente.
I vari tentativi di porre rimedio hanno fatto un buco nell’acqua. Lo scorso autunno i Comuni fino a 30mila abitanti, cioè 96 municipi su 100, avrebbero dovuto privatizzare le proprie società, ma questa ondata di cessioni non c’è stata. Troppe resistenze, troppe regole contraddittorie, il solito valzer delle interpretazioni ha bloccato tutto per l’ennesima volta. Tra le tante, la storia di questa mancata riforma è esemplare della parabola vissuta da tante leggi di casa nostra.
La regola che vieta questa forma di “socialismo reale” a livello locale dei Comuni medio- piccoli è in «Gazzetta Ufficiale» dal 2010, quando la manovra estiva firmata da Giulio Tremonti diede un ordine draconiano: fino a 30mila abitanti non si possono costituire società partecipate, e i Comuni che le hanno le devono cedere entro il 31 dicembre. Come sempre, a una legge così diretta è seguita la pioggia di correttivi, che hanno preso il testo originario e l’hanno diluito, prorogato, e soprattutto snaturato. La legge oggi in vigore salva prima di tutto le società con i conti in ordine, per cui impone di vendere solo quelle che zoppicano, e magari hanno subito negli ultimi anni perdite tali da portare il capitale sotto i minimi di legge. Ovviamente, se messe in vendita, quelle nei guai nessuno le compra. Se ne dovrebbe imporre la liquidazione.
Vicende analoghe hanno avuto i tentativi di porre ordine nelle società “strumentali”, cioè quelle che lavorano quasi esclusivamente per l’ente pubblico che le ha create. A prenderle di mira è stata la spending review: le ‘strumentali’ non servono a nulla e vanno vendute, perché è meglio acquistare i servizi dal mercato. In questo caso i termini erano doppi: la privatizzazione doveva avvenire entro il 30 giugno scorso, mentre a dicembre dovrebbero chiudere i battenti quelle che non sono state privatizzate. Poi è arrivata la solita proroga, al 31 dicembre, ma la Corte costituzionale, chiamata in causa da Friuli Venezia Giulia, Campania, Puglia e Sardegna, a luglio ha stabilito che, in base all’attuale Titolo V, la regola è incostituzionale per le tutte le Regioni e per i Comuni nei territori a Statuto speciale. A fare crescere il numero ed il peso delle società “strumentali”, è stato anche un insieme di regole che hanno spinto le esternalizzazioni anche in base al malinteso che «azienda» e «società», anche se emanazione diretta degli enti pubblici, fossero sinonimo di modernità ed efficienza. Almeno fino al 2006, il Patto di stabilità interno sembrava costruito apposta per ingigantire il fenomeno, che permetteva di far uscire dal bilancio dell’ente spese e assunzioni in slalom rispetto ai vincoli di finanza pubblica.
Il Presidente del Consiglio in carica è stato Presidente di provincia e Sindaco di una grande città. Ha quindi esperienza di questo comparto. Se non la coniuga con l’ambizione di modernizzare l’Italia, diventerà poco più che un numero: una vittima in più del “socialismo reale” a livello locale.
Riferimenti

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“The Paradox of Liberalization — Understanding Dualism and the Recovery of the German Political Economy”
British Journal of Industrial Relations, Vol. 52, Issue 1, pp. 57-81, 2014
ANKE HASSEL, Hertie School of Governance
Email: hassel@hertie-school.org
What do the recent trends in German economic development convey about the trajectory of change? Has liberalization prepared the German economy to deal with new challenges? What effects will liberalization have on the co-ordinating capacities of economic institutions? This article argues that co-ordination and liberalization are two sides of the same coin in the process of corporate restructuring in the face of economic shocks. Firms seek labour co-operation in the face of tighter competitive pressures and exploit institutional advantages of co-ordination. However, tighter co-operation with core workers sharpened insider–outsider divisions and were built upon service sector cost cutting through liberalization. The combination of plant-level restructuring and social policy change forms a trajectory of institutional adjustment of forming complementary economic segments which work under different rules. The process is driven by producer coalitions of export-oriented firms and core workers’ representatives, rather than by firms per se.

Fonte: Liberalizzazioni tra miraggi e concretezza

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