È difficile comprendere perché il Governo Renzi – o, daltronde, qualsiasi esecutivo deputato a governare lItalia in questi anni – non ponga il nodo dellaumento della produttività al centro delle proprie riflessioni e della propria azione. Oppure, quanto meno, come parametro essenziale per valutare le politiche istituzionali ed economiche settoriali. I documenti Istat sono chiarissimi, in particolare il Rapporto Annuale 2015 pubblicato meno di un mese fa: la produttività (comunque la si voglia definire) non cresce dal 1999 e dallinizio della crisi nel 2007-2008 abbiamo perso un quarto del valore aggiunto nel manifatturiero, con la probabilità di non poterci ben presto più fregiare della palma di essere la seconda potenza industriale dellUnione europea.
Pare il Presidente del Consiglio non abbia grande stima della triste scienza delleconomia e di chi la pratica. Tuttavia, motivazioni di politique dabord, ove non meramente elettorali, dovrebbe spingerlo a dare la massima priorità allargomento. Un comunicatore puro come James Carville costruì per la campagna elettorale di Bill Clinton lo slogan It is the economy, stupid. In Italia, the economy vuole dire essenzialmente produttività.
Occorre ammettere che dalla costituzione del Regno nel 1861 la produttività multifattoriale italiana è cresciuta solamente in tre periodi: letà giolittiana (quando lItalia fu in grado di mostrare un alto grado di efficienza adattiva nellimportare innovazioni tecnologiche nate altrove e innescarle sulla nostra inventività), il periodo fascista (grazie a un cambio fisso che teneva basso il costo del lavoro rispetto agli Paesi industriali) e il miracolo economico (a ragione di una forza lavoro molto ben addestrata e abbondante che dalla guerra dAfrica era stata applicata ad attività poco o nulla produttive).
Occorre pur riconoscere che la grande industria italiana non ha dato prova di grande imprenditorialità, restando confinata in pochi settori a scarso contenuto innovativo (automobili, pneumatici, cioccolata, ottica e maglieria di massa – ottenendo i propri utili, in questo ultimo caso, da una lauta e lunghissima concessione autostradale). Ciò vuol dire alzare le mani al Cielo e confidare nello stellone dicendo Io, speriamo che me la cavo (in materia di produttività)? Sarebbe il cop out rinunciatario di un gruppo dirigente che si è presentato con lambizione di rinnovare lItalia e portarla fuori dalla palude, piena di sabbie mobili, in cui si trova. Vorrebbe anche dire dovere cedere presto ad altri.
Cosa fare? Si può suggerire una strategia con due linee di azione differenti, ma convergenti. Da un lato, valutare lapporto alla produttività delle riforme in cantiere. Una valutazione che deve essere con le metodologie quantitative di cui dispone la professione e che dal 1995 al 2008 sono state insegnate dalla Scuola nazionale damministrazione a schiere di dirigenti e funzionari pubblici. È possibile che risulti, dallanalisi, che il Jobs Act ha molti meriti, ma non contribuisca allaumento della produttiva e che certi aspetti della riforma costituzionale abbiano affetti negativi sulla produttività (ad esempio, le specifiche per portare allinattività del Cnel sono state stimate in un costo netto di 3 milioni di euro lanno).
Da un altro, mettere in campo riforme mirate direttamente alla crescita della produttività. In questo senso, unanalisi recente del Fondo monetario internazionale parte da differenze settoriali di produttività nei principali comparti delleconomia e ne raffronta gli andamenti per i principali Paesi industriali utilizzando tecniche innovative. Senza entrare in questi aspetti, è importante sottolineare che in quasi tutti i comparti (e nella produttività multifattoriale) lItalia ha quasi sempre la maglia nera. La parte innovativa è che le tecniche econometriche utilizzate mostrano come il comparto più serio è quello dei servizi e che la scarsa produttività che li caratterizza deriva da quanto poco è stato fatto in materia di liberalizzazioni.
Ce lo ha detto lOcse e ce lo ripete proprio in questi giorni il volume Liberalizzazioni: unincompresa necessità dellAssociazione società libera. Il lavoro del Fmi si distingue da questi per la drammaticità e la chiarezza: senza una forte liberalizzazione dei servizi, il resto serve poco. Tanto più che da noi imprenditori innovativi, pronti a rischiare capitali propri, pare non nascano più.