• sabato , 22 Febbraio 2025

Se i dazi penalizzano chi li impone

di Fabrizio Onida

L’arma dei dazi, che Trump ha sfoderato appellandosi ai pieni poteri che la legge federale del1977 IEEPA (International Emergency Economic Powers Act) conferisce al presidente in presenza di un’emergenza per la sicurezza nazionale , potrà forse essere in parte la classica pistola che Trump poggia sul tavolo finalizzata ad estorcere condizioni ancora più vantaggiose per i manufatti che gli Usa scelgono di importare dai paesi fornitori a basso costo, a cominciare dalla Cina, ma anche dall’Europa (D.Taino, Corsera 10.02).

Ma il gioco può diventare pericoloso per almeno due motivi: (a) perché i paesi fornitori (inclusi quelli economicamente avanzati come Ue e Giappone) possono fare azione di rappresaglia imponendo dazi o altri ostacoli alle esportazioni americane secondo il classico schema “tit-for-tat”, neutralizzando così buona parte dei vantaggi su cui conta Trump per la produzione e l’occupazione domestica (si pensi a eventuali contro-dazi imposti dalla Ue sulle proprie importazioni di prodotti made in Usa come abbigliamento e calzature sportive, auto e moto, elettrodomestici, medicinali, prodotti di cosmesi); (b) perché molte importazioni di manufatti intermedi , lungi dall’essere “nemiche”, si sono consolidate nel tempo come anelli della “catena del valore” che sostiene la competitività delle stesse esportazioni Usa (dai tessuti per l’abbigliamento sportivo alle batterie per autoveicoli, dai coloranti per l’edilizia alle componenti per le macchine agricole e movimento terra e così via).

La globalizzazione, che ha crescentemente pervaso le relazioni economiche internazionali nel secondo dopoguerra, continua a rimescolare le carte, aprire nuove opportunità, rivelare i limiti delle politiche mercantilistiche che magari godono il favore di una superficiale popolarità (anima dei populismi) ma si rifiutano di capire l’evoluzione della storia. Acquistare manufatti dall’estero non comporta solo danneggiare i lavoratori nazionali che si trovano spiazzati dai lavoratori dei paesi concorrenti a basso costo del lavoro, ma in molti casi può contribuire ad accrescere la competitività delle imprese nazionali e ad esportare di più.

Ciò accade proprio perché lungo i processi produttivi che il paese mantiene sul proprio territorio si risparmiano costi a monte per poter ridurre i prezzi a valle e in molti casi migliorare qualità e prestazioni dei prodotti in cui poi il paese riesce a battere la concorrenza sui prodotti finiti. Certo questo implica disporre di imprenditori nazionali intelligenti, competenti nel campo proprio e nei campi affini, volenterosi, fantasiosi, lungimiranti, coraggiosi.

Tutto ciò è ben chiaro nella cultura industriale di un paese che storicamente trasforma materie prime in manufatti più o meno sofisticati (come Germania, Italia, Giappone, Corea), forse meno nella cultura post-industriale che ha crescentemente dominato gli Usa negli anni 2000.

I dazi sono una tassa imposta dal paese importatore ai propri fornitori, con effetti non univoci che ricadono su entrambi i fronti e possono quindi arrivare a danneggiare lo stesso paese importatore. Il Wall Street Journal, certo non sospetto di essere prevenuto come anti-partito repubblicano, è arrivato a definire la politica aggressiva dei dazi di Trump come “la guerra commerciale più stupida della storia”.

Non si dimentichi che I paesi fornitori colpiti dal dazio devono scegliere tra due strategie: a) mantenere invariati i propri prezzi all’esportazione e quindi i propri margini unitari di profitto dalle vendite su quel mercato, a scapito però dei volumi venduti per effetto della perdita di competitività-prezzo nei confronti dei produttori locali e degli altri esportatori concorrenti: b) difendere la propria quota dei volumi esportati, accettando di ridurre prezzi e margini unitari di profitto su quel mercato (scelta tanto più giustificata quanto più quel mercato pesa sull’export totale del paese). In questo secondo caso si dice che il dazio porta a migliorare le “ragioni di scambio” del paese che ha imposto il dazio.

Le ragioni di scambio sono da sempre definite come il rapporto tra prezzi all’export (numeratore) e prezzi all’import (denominatore). In entrambi i casi il paese importatore che impone il dazio riesce di norma a forzare il gioco a beneficio della propria bilancia commerciale, mentre i paesi colpiti dal dazio concorrono a generare un gettito fiscale più o meno significativo per le casse dello stesso paese importatore.

Scelte politiche in materia di dazi e di barriere quantitative al commercio internazionale non dovrebbero poggiare su reazioni emotive o istanze sedicenti “patriottiche”. Purtroppo la WTO, sede multilaterale disegnata con lungimiranza nel dopoguerra, storicamente collaudata e appropriata per negoziare con realismo gli accordi che regolano la mobilità internazionale delle merci e dei servizi tra paesi, trova oggi nell’amministrazione americana più un nemico pregiudiziale che un partner costruttivo. E la Ue, per note ragioni, non ha la forza politica per condizionare il gioco.

(Sole 24Ore, 16 febbraio 2025)

Fonte: Sole 24Ore, 16 febbraio 2025

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