di Fabrizio Onida
Il prossimo cambio della guardia alla Casa Bianca, salutato da Trump come rilancio della vocazione di grandezza americana (MAGA) in un mondo multipolare disorientato dai rumori delle guerre, delle sorprese climatiche e delle pandemie in agguato, dovrebbe anche in Europa sollecitare una riscossa, dopo almeno un ventennio in cui si è allargato il divario di produttività e crescita tra le due sponde dell’Atlantico Dal 2000 gli Usa hanno registrato una crescita del reddito disponibile reale per abitante a velocità doppia rispetto all’Europa.
Con toni distaccati ma fermi il Rapporto Draghi dello scorso settembre – di cui troppo poco si parla – invita tutti gli stakeholders europei (politici, sindacalisti, imprenditori, manager, tecnici, semplici cittadini) a prendere atto di una sfida difficile, ma non persa in partenza, sul futuro della competitività dell’Europa. Ricordiamo: è un continente di 440 milioni di consumatori e 23 milioni di imprese che genera quasi il 20 % del Pil globale (a fronte del 17% della Cina e il 24% degli Usa: dati Banca Mondiale), in testa alle classifiche di vita attesa, bassa mortalità infantile, minore disuguaglianza tra ricchi e poveri, apertura commerciale sul resto del mondo. Soffermiamoci su tre linee d’azione su cui insiste il Rapporto.
La prima linea d’azione mira a colmare il persistente divario fra ricerca e innovazione per cui solo un terzo dei brevetti registrati da università e istituzioni di ricerca europee trovano uno sfruttamento commerciale. La ragione di ciò è principalmente da ricondursi alla scarsa presenza sul mercato dei capitali dei fondi di venture capital capaci di trasformare gli “inventori” in “innovatori”. A poco serve moltiplicare innumerevoli start-ups, magari utili per vantare l’attivismo innovativo delle istituzioni che le promuovono, se non intervengono investitori specializzati nello scale-up cioè la crescita dimensionale dell’impresa sul mercato dei beni e servizi. Sull’impiego globale dei fondi di venture capital l’Europa pesa il 5% contro il 52% degli Usa e il 40% della Cina. Mediamente in Europa, con forti differenze tra paesi membri, le imprese continuano a trovare ostacoli burocratici nell’adempiere ai requisiti di partecipazione ai progetti, inclusi gli ormai noti IPCEI che mirano a costruire collaborazioni transfrontaliere su campi importanti di comune interesse. Mettere a terra le tante potenzialità di innovazione dallo sguardo lungo è una vera e propria “sfida esistenziale” ed evitare una “lenta agonia” per usare il linguaggio caro a Draghi.
Ancora in tema di divario innovativo il Rapporto sottolinea la debolezza dell’Europa nel dominio delle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura, ad esempio lo High Performance Computing da cui inevitabilmente passano gli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale e del Cloud Computing che consente l’interazione di diverse unità di ricerca capaci di realizzare importanti masse critiche. Il fondo europeo di Ricerca e Innovazione dispone di un discreto budget (100 miliardi di euro), che però si disperde fra troppi obiettivi e non è abbastanza focalizzato sulle tecnologie di punta (disruptive).
Sui 50 gruppi mondiali padroni delle migliori tecnologie solo 4 sono europei e restano sottodimensionati rispetto alla concorrenza globale: un caso di specie è costituito dalle telecomunicazioni, in cui operano 34 soggetti contro una piccola manciata di concorrenti negli Usa e in Cina.
Un secondo campo in cui l’Europa deve muoversi rapidamente è la programmazione delle risorse umane, nel senso di correggere il frequente mancato incrocio fra domanda e offerta di qualifiche lavorative (skills). I test PISA segnalano un arretramento degli standard europei rispetto a quelli asiatici.
Continuiamo a sottoutilizzare le pur disponibili piattaforme di “skills intelligence” per misurare in modo granulare, coprendo tutti i paesi membri, la domanda insoddisfatta di lavoratori con diverse qualifiche lavorative e fasce d’età (incluso il recupero formativo degli adulti).
Da ultimo, ma non per importanza, il Rapporto insiste sulla grande sfida che consiste nel combinare l’obiettivo indilazionabile della decarbonizzazione (tecnologie pulite) con la difesa della competitività. L’Europa è relativamente debole nell’innovazione digitale ma ha spesso anticipato ed è leader nelle tecnologie pulite, essenziali per il futuro dei trasporti terrestri, marittimi ed aerei. Trovo interessante che nel testo del Rapporto, parlando di investimenti di grande dimensione rivolti al futuro come le reti intraeuropee di approvvigionamento energetico e di trasporto, si affacci un termine come pianificazione (planning). Un termine ormai desueto perché evocativo di politiche fallimentari del passato soprattutto in Italia, che però non andrebbe considerato “parola oscena” bensì va riscoperto in chiave europea, costringendo i governi a ragionare a mente fredda sul futuro della nostra competitività.
(Sole 24Ore 14 dicembre 2024)
Fonte: Sole 24Ore 14 dicembre 2024