• giovedì , 21 Novembre 2024

Come misurare meglio la produttività dell’industria

di Fabrizio Onida

Torno sul tema della produttività che, come scriveva il Nobel dell’economia Paul Krugman nel 1994 “non è tutto, ma nel lungo termine è quasi tutto”. E’ noto che, pur diversamente misurata, già dall’inizio degli anni ’80 la crescita della produttività ha visto l’Italia accumulare un crescente ritardo rispetto all’Europa, salvo una recente timida inversione di tendenza dopo il Covid-19. In un precedente articolo su questo giornale del 24 marzo 2024 ho suggerito di guardare alla produttività misurata a prezzi e tassi di cambio correnti, non solo depurata a “prezzi costanti” facendo ricorso a stime di dubbia significatività statistica nei servizi (che tuttavia pesano intorno al 70-80 per cento del Pil).

Nelle note che seguono attingo innanzi tutto a elaborazioni econometriche (principalmente Caligaris-Del Gatto-Hassan-Ottaviano-Schivardi, LSE Research Online, settembre 2018) in cui si evidenzia quanto crescita o calo della produttività comunemente misurata dipendano non solo dal comportamento delle singole imprese, ma anche – all’interno di una fortissima dispersione (varianza) dei dati individuali d’impresa negli ultimi 20-25 anni – dai cambiamenti nel tempo del peso delle imprese più o meno produttive all’interno di singole categorie come settori merceologici, circoscrizioni territoriali, classi occupazionali. Lo studio si avvale di dati sui bilanci individuali di imprese manifatturiere tratti da Cerved, Centrale dei bilanci e campione INVIND della Banca d’Italia.

Non occorre essere esperti di statistica per capire che, quando all’interno di un settore o regione o fascia dimensionale (la cosiddetta varianza within) aumenta storicamente la quota degli occupati in imprese più produttive a scapito di quelle meno produttive, ne deriva un aumento della produttività complessiva del sistema. Mentre vale l’opposto quando cresce la quota delle imprese meno produttive.

Naturalmente la produttività complessiva cresce (cala) anche quando la composizione strutturale dell’economia vede aumentare (diminuire) il peso sul totale di settori-regioni-classe dimensionale che per i più diversi motivi risultano nel loro insieme più dinamici e ad alto valore aggiunto per addetto (cosiddetta varianza between).
L’indice di produttività usato nello studio è la TFP (Produttività Totale dei Fattori) che cerca di catturare il ruolo di fattori invisibili ma cruciali come innovazione tecnologica, competenza manageriale, formazione del capitale umano.

Il risultato interessante, che purtroppo il dibattito politico e giornalistico sul declino relativo dell’Italia tende a trascurare, è che la produttività aggregata della nostra economia dipende assai più dalla dinamica within che da quella between. In sintesi, l’allocazione delle risorse nazionale di capitale e lavoro risulta inefficiente quando tende a mantenere in vita imprese meno produttive anzi che favorire la crescita di quelle più produttive.

Questa relativa vischiosità del sistema produttivo dipende da una congerie di cause, la cui rimozione servirebbe proprio a rilanciare le sorti economiche del paese e ridurre l’ossessione del declino. L’Italia conserva un forte potenziale di crescita della TFP se i governi promuovessero una politica macroeconomica e più specificamente una politica industriale, secondo linee ampiamente e da tempo condivise da molti economisti e ben argomentate in almeno due recenti volumi: P.Modiano e M. Onado “Illusioni perdute. Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni” (Mulino, dicembre 2023); F. Amatori, P. Modiano, E. Reviglio, a cura di, L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento 1992-2022, F.Angeli 2024).

Innanzi tutto, superare la tentazione retorica ancora diffusa del “piccolo è bello” e promuovere in tutti i modi la crescita dimensionale delle imprese, a cominciare dalle microimprese (1-9 addetti) il cui peso è sempre più anomalo in Italia rispetto al resto del mondo avanzato. Basti ricordare che nel 2019 gli occupati nelle microimprese – fortemente presenti in come settori costruzione, servizi immobiliari, distribuzione al dettaglio, ristorazione – pesavano il 44% degli addetti, contro il 22% in Francia e il 19% in Germania. L’anomalia italiana si attenua molto o addirittura scompare quando osserviamo le fasce da 10 a 249 addetti. Si ripresenta invece per le imprese maggiori, ma questo è altro tema, affascinante ma spinoso, che chiama in causa il fallimento di parti importanti dell’impresa pubblica (EFIM, GEPI, parti dell’IRI) e della grande impresa privata, invano chiamata a raccogliere la sfida delle privatizzazioni degli anni ’90 imposte dall’Europa.

Va limitato il sostegno a imprese decotte o quasi. La crescita dimensionale va incentivata anche correggendo le numerose normative che continuano a premiare le imprese che vogliono esplicitamente restare “sotto soglia” nella dannosa ricerca di maggior protezione fiscale e sindacale.

(Sole 24Ore, 14 aprile 2024)

Fonte: Sole 24Ore, 14 aprile 2024

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