di Franco Debenedetti
Logico che non ci sia giornale o televisione che non descriva, tra l’ammirato e lo stupefatto, come Draghi, con la sua sola presenza, prima ancora di essere ufficialmente insediato, abbia scompaginato il quadro politico, dato nuova vita ai riti un po’ sclerotizzati della formazione dei governi, aperto nuove prospettive a un paese indebolito e provato. Incomprensibile invece che la maggior parte di loro non dedichi una riga o un minuto per riconoscere, non diciamo il merito, ma nemmeno il ruolo che, nel provocare questa svolta, ha avuto colui che avevano invece severamente condannato: colui che, per pura ambizione personale e imperdonabile incoscienza, aveva buttato in una crisi al buio un paese in piena pandemia. E parlo dei grandi giornali nazionali, delle reti televisive e della maggior parte dei loro autorevoli commentatori.
Eppure Draghi, o come superministro dell’Economia, o come capo del governo, era fin dall’inizio parte integrante del proposito di Renzi di mettere fine al Conte-due. Ben prima della caduta di Conte alcune cose erano già nei fatti. Ad esempio era chiaro che, con le struttura che aveva messo in campo, il più grande piano di vaccinazione mai realizzato sarebbe stato un altro fallimento dopo quelli dei vaccini influenzali, dei tamponi, delle mascherine, e dei banchi a rotelle; che la bramosia di usare il New Generation EU per erogare sussidi, unita al disdegno per la competenza, avrebbe reso problematico presentare entro aprile un Pnrr accettabile; che già un Conte ter avrebbe messo in crisi gli equilibri nella maggioranza. E che quella di andare a votare subito fosse un’arma spuntata l’ha scritto, se non sbaglio, solo questo giornale.
Certo, nessuno avrebbe potuto prevedere la conversione atlantico-europea di Salvini, l’evoluzione incruenta dei Cinque stelle da movimento no-a-tutto a forza di governo; tantomeno che qualcosa si potesse muovere nella foresta pietrificata del Pd. Tutto questo va attribuito personalmente a Draghi e alla sua forza, nonché alla debolezza dei politici, coscienti dei rischi che correrebbero se gli dicessero di no. “Ex malo bonum”, dicono: ma non dicono il vero. Perché il bonum, cioè Draghi, è stato fin dall’inizio parte integrante di quello che chiamano “malum”, cioè la crisi. E poi: se era possibile evitarlo, perché non ci hanno pensato loro prima? La realtà è che senza la crisi, senza aver lavorato per mesi a quelle che chiamano le provocazioni renziane, non si sarebbero verificate le condizioni descritte da Mattarella nel suo messaggio, quelle per cui Draghi è l’unica soluzione possibile.
I leader dei partiti, per salvare il proprio ruolo devono difendere il proprio operato: dare la colpa a un alleato-avversario con cui litigano da anni è la cosa più facile. Ma i media, perché? Renzi non ha rottamato giornalisti, non ha rotto un patto con uno e, senza neppure dirglielo, favorito un concorrente, non ha indetto un plebiscito per farsi nominare capo. Per gli analisti, gli errori politici sono materia di cui scrivere, non peccati da stigmatizzare. Perché Renzi ha violato l’accordo su chi dovesse andare al Quirinale, rompendo il patto del Nazareno, e così perdendo il referendum che avrebbe reso l’Italia più adatta a governare crisi sanitarie ed economiche? Aver perseguito la caduta di Conte è moralmente riprovevole? Renzi aveva forse qualche recondito piano su cui giocare il suo 2 per cento di consensi? O è sempre e solo il suo ego patologico? Per Massimo Recalcati, che di psicopatologie se ne intende, “il livore antirenziano del Pd segnala un problema storico assai più serio di quello della diagnosi psicopatologica di Renzi”.
E’ in gioco la sua stessa identità, l’eredità autentica della sua storia, la sua capacità o incapacità di interpretare il suo tempo. “La demonizzazione del figlio bastardo di Rignano è oggi il paravento dietro al quale nascondere la propria dipendenza politica dal M5s”.
(Il Foglio del 12 febbraio 2021)
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