di Salvatore Zecchini
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza costituisce un notevole passo in avanti rispetto al passato nel tracciare un programma di politica industriale di portata olistica. Ma… L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse e docente a Tor Vergata
Va innanzitutto riconosciuto che il Pnrr costituisce un notevole passo in avanti rispetto al passato nel tracciare un programma di politica industriale (PI) di portata olistica, che viene impostato come una cornice entro cui vanno ricondotti i vari piani settoriali che sono stati emanati nell’ultimo biennio (ad es., quelli per la digitalizzazione, l’intelligenza artificiale, il blockchain, l’energia sostenibile ovvero il Pniec), quelli che saranno emanati prossimamente, come la Strategia Nazionale Idrogeno, e gli altri interventi strutturali definiti, qual è #italiaveloce, e da definire.
Il Pnrr comprende una miriade di interventi che inquadra in nessi funzionali, fungendo anche da cornice di PI per le misure già varate nel Decreto di agosto e nella Legge di bilancio per il 2021. Sta proprio in questi collegamenti funzionali ed interazioni tra le diverse misure l’innovazione di maggior impatto per un uso coerente delle risorse e il modo più razionale di cogliere l’occasione offerta dalla Unione Europea di contribuire a finanziare una grande manovra per risollevare l’economia ed orientarla verso la modernizzazione dettata dalle nuove tecniche e tecnologie.
I tratti innovativi non si fermano a questo aspetto, ma investono anche il modus operandi per realizzare il programma, la governance della gestione della manovra. Senza questo cambiamento sarebbe in realtà impossibile raggiungere i traguardi prefissati sia dalla Commissione Ue, sia dal governo nel suo intento di trarre il Paese fuori dalla trappola della stagnazione economica e di porre un argine al dilatare del debito pubblico, già ai limiti della sostenibilità. Secondo i piani governativi il 70% delle sovvenzioni del Recovery and Resilience Fund dovrebbe essere impegnato entro i prossimi due anni e speso entro il 2023.
Se si applicassero i metodi attuali segnati da lentezza della burocrazia, farraginosità delle procedure amministrative e molteplicità di autorizzazioni necessarie da parte di differenti istituzioni sarebbe impossibile rispettare le scadenze e fare il miglior impiego delle risorse. Ne è prova l’esperienza del passato decennio e i modesti progressi fatti nello snellire i procedimenti nonostante i molti provvedimenti di semplificazione e deregolamentazione presi da tutti i governi che si sono succeduti.
Occorre, quindi, dare una spallata al sistema esistente, responsabile di ritardi, inefficienze e compromessi al ribasso, introducendo un nuovo approccio che sconvolge l’assetto corrente. In effetti si sperimenta un nuovo sistema basato su una struttura ristretta al vertice e ampia alla base. In particolare, al vertice sta il Comitato esecutivo di tre ministri, che peraltro risponde all’intero governo e al Parlamento, ove necessario. Sul gradino sottostante si collocano i Responsabili di missione (Rdm) con le loro strutture di supporto formate da specialisti attinti da varie fonti, compresi i ministeri e con una sede di coordinamento rappresentata dalla Conferenza dei Rdm.
Quindi alla base i soggetti attuatori, rappresentati dai funzionari dei ministeri, ma anche da soggetti tratti da società ed enti, che possono ricorrere al supporto di strutture tecniche. Il tutto sottoposto a uno stretto monitoraggio in itinere dei tempi di attuazione e dei risultati, a cui partecipa un Comitato di rappresentanti degli stakeholders (categorie produttive, università, enti di ricerca) con ruolo anche di consulenza e di proposta.
Naturalmente non mancano le garanzie istituzionali, fornite attraverso l’audit della Corte dei Conti e la rendicontazione e il controllo della Ragioneria Generale dello Stato, e rafforzate da un ambiente improntato alla trasparenza dell’informazione sull’andamento degli interventi e sui risultati. Un pregio del nuovo sistema è la possibilità per i RdM di intervenire rapidamente “in sostituzione”, ovvero in deroga alle normali procedure, per superare ostacoli all’attuazione delle opere.
Aspetto ancor più sconvolgente per i tutori dell’esistente è che si dichiara che se i nuovi meccanismi di governance assicureranno procedimenti snelli, efficienti, semplificati e tempestivi, questi meccanismi potranno divenire permanenti. In caso contrario, sarà l’occasione per modificare quei meccanismi. Implicitamente si riconosce che le procedure attuali non risultano in genere compatibili con la realizzazione rapida ed efficiente delle opere pubbliche e degli investimenti privati. Pertanto, la sperimentazione della nuova governance può essere il terreno di prova per saggiare la bontà di un nuovo approccio alla semplificazione e alla modernizzazione della gestione dell’intervento pubblico.
Di fatto, una riforma della amministrazione pubblica. Il nuovo ovviamente comporta lo sconvolgimento di posizioni acquisite e di apparati e culture consolidati nel tempo, suscitando la reazione di quanti rischiano di perdere i benefici (o quasi-rendite) che traggono da questi assetti. La loro resistenza può deragliare il rinnovamento o indurre a modesti compromessi, che pregiudicherebbero l’efficacia del piano.
Ai punti di forza del Pnrr si accompagnano debolezze sui contenuti, che non garantiscono quella forte ripresa economica a cui mira. Il programma si pone diversi obiettivi, che rispondono alle quattro mete fissate da Bruxelles, con un ordine di priorità che si deduce dall’attribuzione delle risorse e dalla portata delle riforme complementari. Il sistema delle imprese, che dovrebbe essere il fulcro per il rilancio degli investimenti, della competitività e della crescita dovrebbe ricevere apparentemente circa il 40% dei fondi (196 miliardi), ma il beneficio effettivo potrebbe variare nei due sensi a seconda della qualità degli interventi, della profondità delle riforme e delle ricadute produttive derivanti da altre linee di azione. Su questi aspetti rimane una notevole penuria di dettagli perché non si conoscono i progetti concretamente operativi, né da quali soggetti promanano, né su quali parametri si fonderà la loro selezione.
È evidente, tuttavia, che il passaggio all’economia verde riceve la maggior fetta (74,3 miliardi), con effetti sulla produttività e competitività di difficile previsione, in quanto una decarbonizzazione dell’economia, a parte l’indotto avanzamento tecnologico, produce un aumento di costi e un’obsolescenza accelerata delle tecnologie attuali, con perdite anche ingenti. Il capitolo infrastrutture è fortemente concentrato su quelle materiali, con poco spazio dedicato a quelle immateriali. Inoltre, resta molto vago sui tempi ed estensione geografica della rete a fibra ottica, come pure sulle modalità con cui diffondere su vasta scala l’alfabetizzazione digitale. Sempre nel campo della diffusione dell’innovazione e delle nuove tecnologie tra le imprese si intende potenziare i poli tecnologici, gli hub e i vari centri di trasferimento tecnologico, ma non si interviene sulla frammentazione di queste strutture per metterle a sistema organico al fine di sfruttare le sinergie e facilitare l’accesso ai loro servizi da parte di imprese e forze di lavoro.
La fiscalità sulle imprese non riceverà un significativo alleggerimento se non per temporanee esenzioni dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro e riduzione degli stessi per le regioni beneficiarie delle politiche di coesione. Pertanto, non si riduce lo svantaggio fiscale del fare impresa in Italia rispetto ad altri paesi dell’UE. La promozione dell’imprenditorialità sin dalla giovane età riceve pochi stimoli per contrastare il declino pluriennale della formazione di imprese, né si prevendono interventi diretti a sostenere la crescita dimensionale delle piccole imprese per ridurre la vulnerabilità del Paese dovuta all’eccessiva frammentazione del sistema produttivo.
Le riforme di struttura che dovrebbero fungere da assi portanti della crescita di medio-lungo periodo hanno una incidenza limitata e diluita nel tempo. Nel campo della giustizia si intende semplificare i procedimenti e ridurre i tempi dei processi, ma in assenza di scadenze perentorie per la conclusione dei giudizi, responsabilizzando la magistratura, non vi è garanzia del risultato auspicato. Né si prevendono interventi per limitare la durata delle procedure esecutive, che attualmente si protraggono eccessivamente, scoraggiando il credito e aggravando i costi delle operazioni commerciali. La riforma dell’ordinamento giudiziario peraltro non affronta i vuoti di conoscenza ed esperienza tra gli organi giudicanti.
In materia di lavoro non si va verso una maggiore adattabilità del mercato rispetto alle esigenze di flexicurity richieste dalla rivoluzione tecnologica, ma si insiste sul potenziamento dei centri per l’impiego e dei programmi di formazione, che in passato hanno prodotto scarsi risultati. Che cosa dovrebbe indurre a ritenere che questa volta l’esito sarà differente? Molto più feconda è, invece, la scelta di raccordare i programmi di istruzione dei giovani alle esigenze del mondo produttivo per superare la discordanza attuale tra offerta di lavoro e domanda. Eppure, la riforma del mercato del lavoro costituisce uno dei pilastri per accelerare la crescita nel lungo periodo, come indicano le stesse simulazioni econometriche presentate a sostegno del Pnrr.
Tra tutte le riforme oggetto delle simulazioni, quella del lavoro produce il maggior impatto sulla crescita, sebbene si assumano modesti miglioramenti (1%) nel tasso di partecipazione al lavoro, nelle competenze e nel mismatch. L’altra grande riforma, quella della pubblica amministrazione ruota attorno alla digitalizzazione dei procedimenti e sulla formazione. Quale probabilità di successo può avere questo programma se non si includono anche un radicale snellimento dei procedimenti, il loro accorciamento con scadenze perentorie, la responsabilizzazione (accountability) dei funzionari sul raggiungimento dei risultati e non sul rispetto formale delle procedure, e un forte incentivo al personale a elevare le proprie competenze?
Il soggetto pubblico può stabilire nuove tecniche e procedure, ma il capitale umano della PA, essenziale complemento della riforma, non necessariamente si porterà altrettanto rapidamente all’altezza delle nuove competenze per raggiungere un più alto livello di produttività, particolarmente negli organi periferici (Regioni, Comuni e Provincie). Occorre anche un sistema di forte incentivazione alla performance da innestare nei contratti di lavoro. Una riforma altrettanto radicale è necessaria nei procedimenti autorizzativi delle opere infrastrutturali per realizzarle senza ritardi, passando inevitabilmente per una revisione costituzionale delle competenze dei diversi livelli di autorità. Di tanto non vi è traccia nel Programma, benché sia largamente riconosciuto che la fase a monte dell’esecuzione delle opere sia responsabile dei tempi lunghi e delle distorsioni che si vedono da decenni.
Nell’insieme, è pregevole che nel Pnrr siano state incluse simulazioni econometriche dell’impatto su crescita e grandezze macroeconomiche, perché chiariscono le ragioni di molti interventi. Ne emerge che l’accelerazione della crescita sarà consistente solo nel medio periodo, ovvero dal 2023, mentre nel prossimo biennio saranno le politiche della domanda a dover trainare la congiuntura.
Risulta altresì chiaro che il Pnrr è un piano spinto dal lato dell’offerta (supply driven), che non si fonda sulla quantificazione dei fabbisogni capitolo per capitolo, né considera tempi ed intensità della reazione dal lato della domanda. In termini più semplici, lo Stato mette a disposizione nuovi strumenti, regole e finanziamenti, ma non sa come imprese e cittadini ne faranno il miglior uso. Inoltre, l’esito delle simulazioni econometriche si fonda su ipotesi eroiche di risultati, che appaiono invece difficilmente raggiungibili con le misure enunciate in rapporto alla realtà attuale. Bisogna quindi affidarsi alla speranza che si continui nelle riforme nella successiva legislatura e che tutto vada per il meglio.
Fonte: Da Formiche.net del 21-12-20