di Giuseppe Pennisi
La bozza che è stata diffusa del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) del governo Conte autorizza e rafforza alcuni quesiti. È auspicabile che prima della presentazione in Parlamento (magari con una sessione appositamente dedicata) e, quindi, alla Commissione Europea, il documento venga approfondito sotto quattro punti che saranno centrali alle analisi sia delle Camere sia dell’Ue.
In primo luogo, occorre chiarire se la ripartizione dei finanziamenti tra i sei settori è il risultato di un lavoro “top down” o “bottom up”. Ossia se è frutto di un’analisi effettuata con la modellistica economica disponibile al ministero dell’Economia (Mef) o all’Istat per trovare, tra le tante ripartizioni possibili, quella che meglio ottimizza gli obiettivi in termini di crescita del Pil e dell’occupazione.
Oppure se è la mera sommatoria dei fondi richiesti per la sessantina di progetti prescelti. In secondo luogo, non è stato spiegato – e occorre farlo – come si è passati appunto dai circa 600 progetti iniziali alla sessantina circa del Pnrr, stando a quanto annunciato dal premier Conte. È di secondaria importanza chi ha fatto la valutazione e la selezione, senza dubbio esperti di rango.
Probabilmente, nella rosa dei 600 progetti, numerosi mancavano ancora dei dati di base, non erano quindi valutabili. Per quelli giudicati valutabili, quali parametri di valutazione sono stati utilizzati: quelli definiti dal Cipe nel lontano 1984? Quelli elaborati dal Cnel nel 2012? O altri più recenti? Nell’ipotesi, altamente probabile, che il finanziamento complessivo richiesto è per il totale dei progetti considerati singolarmente validi, quali criteri di scelta sono stati adottati? Si è fatto ricorso ancora alla modellistica Mef e/o Istat? Oppure alla “méthode des effets”, nata in Francia e in uso all’Ue, per individuare il “grappolo di progetti” – così dicono da decenni le guide europee – che meglio risponde agli obiettivi? In terzo luogo, sarebbe utile che la prossima stesura del Pnrr contenga una breve appendice che illustri i principali indicatori economici e sociali (quali il tasso di rendimento interno, l’occupazione creata sia in fase di cantiere sia a regime, il reddito generato per la fasce deboli) per ciascuno dei circa sessanta progetti.
In tal modo, chiariti i parametri di valutazione e i criteri di scelta, si rafforzerebbe la posizione italiana in sede Ue, rispetto agli altri Stati dell’Unione. In quarto luogo, come peraltro accennato in precedenti documenti del dipartimento degli Affari europei, dato che la “Resilience and Recovery Facility” richiede una valutazione ex post dei singoli progetti per l’erogazione dell’ultima tranche di finanziamenti, non solo i dati indicati nei paragrafi precedenti sono essenziali, ma sarebbe bene esplicitare da ora come verrà fatta tale valutazione. Anche perché l’unica manualistica disponibile in Italia risale al 1991.
Fonte: da Avvenire del 09/12/2020