di Franco Debenedetti
Se non varrà la legge di Murphy, cioè se TIM manterrà il controllo della rete, con un’importante poltrona di rappresentanza per Open Fiber, avremo finito di mangiare, come da cinque anni a oggi, fibra e ideologie. Ne ho contate cinque: del ritardo nella banda larga; del rischio di sprecare investimenti; della superiorità di una tecnologia; del pregiudizio contro le reti verticalmente integrate; dei fallimenti di mercato.
“Nella diffusione della banda larga” scrive AGCOM nel 2006, “l’Italia, pur partendo da posizioni di retroguardia, sta crescendo con un tasso di incremento (187% in due anni), significativamente superiore a quello dell’Europa a quindici: oggi il numero di linee si è attestato complessivamente sui 7 milioni, facendo dell’Italia il quarto Paese europeo”. Dal 2001 al 2006, la Telecom di Pirelli aveva investito il 17% del proprio fatturato, senza distribuire un euro di dividendo. Dal 2016 al 2018 Recchi e Cattaneo portano avanti il piano da 4 mld l’anno. Dato che da noi l'”ultimo miglio” in rame è lungo in media 250m ed è di buona qualità, se la priorità era il ritardo, bastava consentire il vectoring: in un giorno saremmo diventati i primi in Europa. Certo con alcune limitazioni (però superate in Germania), ma poi man mano sostituendo il rame con tecnologie più performanti. Ma la narrativa del ritardo fa gioco: consente a Renzi di dimostrare che, se c’è un problema, lui lo risolve. A Dicembre 2015 si costituisce EnelOpen Fiber per una rete pubblica in concorrenza con Telecom che porti la banda larga in 282 comuni entro il 2022, con la favola dei cavidotti e dei contatori Enel. Che la rete sia in grado di rispondere perfettamente a un picco di domanda pare di cinque volte il normale, lo si è visto col lockdown contro il Covid-19, quando la gente l’ha usata per lavorare, per socializzare, per divertirsi.
Pubblica ma non unica, questa esigenza nacque nel giugno 2019: e siccome tre anni son pochi per decretare il fallimento della strategia della concorrenza, ci si inventa l’ideologia del Paese che non si può permettere lo spreco di doppi investimenti. Ma il rischio di spreco c’è solo se un investitore è lo Stato: chi si preoccupa perchè ci son troppe fabbriche di fibra ottica o di telefonini? L’Europa anzi favorisce il co-investimento, a cui riserva vantaggi regolatori; e bastano i sindaci per evitare che siano in tanti a scavare per le strade.
Ma la vera sagra dell’ideologia è quella scatenata sulla FTTH “fiber to the home”: certo superiore a “fiber to the cabinet”, FTTC, però largamente sufficiente a dare i 30 Mb/s richiesti dall’Europa e in molti casi anche i 100 Mb/s, e che nulla impedisce di upgradare. Si arriva al punto di richiedere all’AGCOM di impedire l’uso la parola “fibra” se non con riferimento al FTTH. Un’azienda di Stato è vista come “ufficiale” in tutto quello che fa, compresa la tecnologia che sceglie: ma l’innovazione (con buona pace di Mariana Mazzucato) funziona in un altro modo, funziona quando sono in tanti a concorrere per il successo, funziona per trial and error: quello che per un privato è uno sbaglio (che paga lui), per lo Stato è un fallimento (che paghiamo noi). Non basta dire che FTTH è per il futuro, è che il futuro è difficile da prevedere: Col 5G la tecnologia wireless (FWA) potrà far passare 1 Gb/s sul rame. Magari domani potrebbe diventare a basso costo il telefono satellitare, che oggi mi porto dietro per le emergenze quando vado in montagna.
Se l’ideologia tecnologica è sempre a rischio di essere smentita dal futuro, il pregiudizio contro la rete verticalmente integrata è smentito dal passato. Quasi ovunque il telefono era monopolio statale: quando si privatizzò, la Comunità Europea decretò che le reti degli ex monopolisti fossero delle essential facililty a cui tutti gli operatori hanno diritto di accedere. Così con il diritto al roaming si sviluppò un vivace mercato concorrenziale nel mobile: tanto vivace che, grazie alla portabilità del numero, c’è chi cambia SIM a seconda delle tariffe più convenienti. Il controllo della parità di accesso fisso è garantito dalla separazione funzionale tra rete e altre attività commerciali, sorvegliata da organismi interni i cui componenti sono nominati dall’Autorità di controllo. Tim, con la separazione societaria ha fatto un passo in più. Quella proprietaria l’ha fatta solo un grande paese, Australia: e non ha finito di pentirsene.
Per far cinque, c’è ancora l’ideologia del “fallimento di mercato”: nelle zone bianche non si investe perchè non c’è domanda. Cosa si fa? Solo il pregiudizio ideologico impedisce di agire direttamente sulle cause della carenza di domanda di servizi e sulle competenze digitali. Ben lo sa Open Fiber: nata per portare la fibra dove non c’è, e preso il contratto statale in monopolio, preferisce investire dove c’è domanda come tutti gli altri.
Avremo finito di mangiar rete e ideologie: ma ci andranno anni per far capire ai nostri statalisti che fanno male alla salute. Del Paese.
Fonte: da IL SOLE 24 ORE, 29 agosto 2020