di Paola Pilati
Esiste in molti paesi, da quelli Scandinavi agli Usa, dal Giappone alla Francia. Molti hanno deciso di introdurlo, come Spagna, Belgio e Cina, e perfino la Gran Bretagna ci sta pensando. Il voto plurimo collegato a una certa classe di azioni sta uscendo dal recinto a cui era stato relegato dal principio vittorioso “one share-one vote”. E oggi viene proposto come strumento ideale di governance delle imprese, anzi come la pietra filosofale per trasformare l’ecosistema finanziario da asfittico in florido, e per dare a un’attività zoppicante il carburante per partire a razzo.
Tutto questo solo in virtù del fatto che attribuire alle azioni di chi controlla una società il diritto di esprimere più voti rafforza, con il suo potere, anche la sua visione, la sua intraprendenza, e la ricerca di finanziatori. Come hanno dimostrato i big dell’high tech made in Usa, Facebook in testa, a cui il voto plurimo ha consentito ai fondatori di tenere la guida in mano, con una leva finanziaria infinita e crescita stellare.
Eppure la proposta, nel decreto Rilancio, di introdurre il voto plurimo anche da noi ha subito scatenato imbarazzi, rimbrotti, marce indietro. Il presidente della Consob Paolo Savona ha bacchettato il governo invitandolo a pensarci meglio, il fronte composito degli investitori istituzionali che operano nella nostra Borsa si è messo sulla difensiva, ai piani alti delle imprese è cominciata la conta dei pro e dei contro.
Ma il tema non è tornato definitivamente nel cassetto del ministro Roberto Gualtieri, anzi il governo è deciso a condurlo in porto. Per capire che cosa lo ha fatto momentaneamente deragliare, bisogna capire in che misura la novità cambierebbe lo status quo del nostro capitalismo.
Da noi oggi il voto plurimo lo possono adottare solo le società che non sono quotate in Borsa. E questo per incoraggiare quel mondo composto soprattutto da imprese di stampo familiare a crescere, senza temere di perdere il controllo dell’azienda: ingresso di nuovi soci o acquisizioni non diluiscono la presa sul capitale dei fondatori perché questi ultimi la esercitano non solo attraverso il numero di azioni possedute, ma con i voti che possono esprimere, che possono essere anche tre volte il numero dei titoli, in virtù appunto dell’adozione nel proprio statuto del voto plurimo.
Se poi queste società familiari sbarcano in Borsa, manterranno questo privilegio. Ma è stato questo l’unico canale, finora, per introdurre il voto plurimo tra le quotate. Riguarda infatti solo tre casi sul listino: Aquafil, Fila, Guala closures, tre mosche bianche. Ebbene oggi il governo vuole estendere lo stesso meccanismo anche alle quotate.
Le quotate non sono però rimaste del tutto a digiuno. Anche loro hanno derogato al principio base del capitalismo anglosassone “one-share-one vote”, ma con un meccanismo in un certo qual modo più democratico. Alle quotate è consentito l’uso del voto maggiorato. Possono cioè introdurre un premio per i possessori di lungo corso dei loro titoli: chi li tiene per almeno due anni, vedrà raddoppiato il proprio diritto di voto. Naturalmente con delle limitazioni: questo doppio diritto si può esercitare esclusivamente nelle assemblee degli azionisti, ma non permette di promuovere azioni contro gli amministratori, né contrastare un tentativo di takeover.
Il voto maggiorato ha avuto successo. Molte quelle che lo hanno già adottato, da Astaldi a Cairo communications, da Campari a Hera, da Ferragamo a Tod’s. E altre si stanno aggiungendo: nella campagna assembleare 2020, otto società hanno all’ordine del giorno l’introduzione del voto maggiorato: Juventus, Moncler e Unipol, ERG, Falck Renewables, Marr, Unipol Sai e Banca Sistema. Con loro, il numero complessivo delle società italiane quotate sul MTA che adottano il voto maggiorato arriverà a 65. Cioè il 30% circa del totale delle società quotate, che rappresenta il 18 per cento della capitalizzazione.
Ci sono due differenze evidenti tra voto plurimo e voto maggiorato: il primo riguarda solo una categoria di azioni, quelle del soggetto che controlla la società; il secondo è una sorta di premio fedeltà esteso a tutti gli azionisti. Il primo moltiplica per tre il voto, il secondo solo per due.
È evidente l’effetto che il voto plurimo avrebbe sul nostro capitalismo. Quello di rafforzare il controllo su una società anche detenendo solo una quota di minoranza dei suoi titoli, un lusso che oggi molti imprenditori ritengono di non potersi permettere, visto che il 29 per cento delle società quotate in Borsa ha un flottante superiore al 50 per cento del capitale.
Il risultato è quello di stabilizzare, ma anche di ingessare del mercato. Per esempio, con un peso decisivo di voti in assemblea, ma contro il volere della maggioranza dei titoli, si possono contrastare fusioni che aumenterebbero il valore della società in Borsa. Oppure si possono prendere decisioni che portano benefici solo al gruppo dirigente e non al resto dell’azionariato.
È per questo che gli investitori istituzionali hanno subito fatto presente la loro contrarietà al voto plurimo in Borsa. E c’è da capirli. Il capitalismo made in Italy si è per molto tempo retto sulle scatole cinesi e i patti di sindacato, attraverso i quali il cosiddetto capitalismo di relazione ha potuto perpetuarsi e intrecciare affari all’interno di un gruppo ristretto, sempre quello. Un retaggio del passato?
In gran parte sì. Molte leggi hanno imposto trasparenza, come quella che regola le operazioni con parti correlate, in assenza della quale, tanto per fare un esempio, la Fondiaria dei Ligresti poteva acquistare a prezzi spropositati gli immobili dei Ligresti stessi, e la Parmalat di Tanzi fare operazioni similari grazie alle scatole cinesi. Altre hanno rafforzato le minoranze. Eppure il pregiudizio di chi ci osserva dall’estero resiste.
Ma allora, perché il governo ha deciso di forzare la situazione a favore del voto plurimo, così inviso, visto che il voto maggiorato è già possibile, ed è adottato da tanti?
La risposta è semplice: per evitare alle frontiere una fila degli emuli della Fiat/Fca. Evitare cioè che le grandi società emigrino in paesi europei con ordinamenti competitivi sul fronte dei poteri di voto, come l’Olanda.
A trasferire la sede legale in Olanda, dopo le società della galassia Agnelli (FCA, Cnh, Ferrari e Exor), si sta aggiungendo la Campari, che ha già approvato lo spostamento, e lo ha già fatto Mediaset. Tra le principali motivazioni indicate dalle società che hanno trasferito all’estero la sede legale c’è proprio la possibilità di poter godere di una disciplina più gradita sulla moltiplicazione del diritto di voto.
In Olanda (ma anche in Svezia), c’è un regime di voto maggiorato che non si limita a riconoscere il raddoppio del peso del voto dopo due anni di possesso del titolo, come da noi, ma consente una maggiorazione crescente: cinque voti dopo 5 anni, 10 voti dopo 10 anni. Non è un voto plurimo, ma un voto maggiorato “potenziato”. Non è riservato al gruppo di controllo, ma a tutti gli azionisti.
È logico però che a sfruttare al meglio il moltiplicatore del diritto al voto siano proprio gli azionisti di controllo, certamente stabili, più che i risparmiatori retail o i fondi, il cui mestiere è piuttosto il trading e non il cassetto. Ciò consente alle aziende di utilizzare il voto maggiorato potenziato come l’approssimazione più vicina al voto plurimo.
Se il suo obiettivo è quello di spuntare le armi dell’Olanda, il governo ha però fatto un passo falso. Ha immaginato una procedura di adozione del nuovo sistema di voto plurimo per le aziende quotate che ha subito creato scompiglio. Come verranno tutelati i piccoli azionisti? Come può essere loro concesso il diritto di recedere e vendere i titoli al prezzo espresso dal mercato prima delle nuove regole, visto che quei titoli senza moltiplicatore di voto avranno meno valore? E poi: se la maggioranza prevista per approvare in assemblea l’introduzione del voto plurimo richiede i due terzi degli azionisti, e la maggioranza di quelli di minoranza, sarà possibile farla passare? Infine, tra le norme che hanno fatto capolino nel decreto Rilancio, c’era anche quella che recesso e regole per il via libera dalle minoranze dovessero restare anche nel caso in cui l’impresa si fosse trasferita in un paese in cui il voto plurimo è concesso. Di fatto, un altro freno al cambio di sede legale.
In quel delicato equilibrio in cui occorre assicurare la protezione dell’assetto proprietario e anche scongiurare l’ostilità degli operatori del mercato, quale potrà essere il punto di mediazione? Lo scenario è ancora fluido. Si sa che Savona sta lavorando a un progetto che ricalca il modello olandese, e anche Gualtieri ha annunciato una sua mossa, dopo che pure l’Ocse ha consigliato di introdurre da noi forme più flessibili di “loyalty shares” (https://www.oecd.org/corporate/ca/OECD-Capital-Market-Review-Italy.pdf).
Qualsiasi soluzione si adotti, dovrà fare i conti con le norme sulla soglia dell’Opa. L’obbligo di una offerta pubblica di acquisto scatta se si supera il 30 per cento di una partecipazione, o dei diritti di voto, e il moltiplicatore del voto maggiorato può produrre proprio questo risultato. Prendiamo il caso di Eni, Enel e Snam, in cui il Tesoro ha meno del 30 per cento: con un voto maggiorato potrebbe salire sopra quel livello; sarebbe a quel punto costretto a lanciare un’Opa sul totale? Proprio per scongiurare questo effetto, la Francia, al momento di introdurre nel 2014 la legge che ha dato automaticamente a tutte le società il voto maggiorato (ma chi non lo voleva poteva farne a meno), vi ha abbinato anche la deroga all’obbligo di Opa. Altrettanto ha fatto il Belgio, escludendo che l’Opa possa scattare sull’aumento dei soli diritti di voto.
Di certo, nella nostra Borsa, più fragile e smilza delle altre, ma pure piena di aziende competitive, il vero beneficio per chi ha adottato il voto maggiorato è stato quello di conservare il controllo dell’azienda e nello stesso tempo mettere al riparo la propria personale ricchezza. Lo dimostra uno studio dell’Università di Bologna e della Cattolica di Milano (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3428887##) secondo il quale, più che lanciarsi in campagne di finanziamento e operazioni di crescita, il sistema delle loyalty share ha consentito a imprese a carattere famigliare, e con la famiglia alla guida, di ridurre la propria quota e quindi la propria esposizione ai bisogni finanziari della ditta. Eppure, anche se gli investitori istituzionali hanno sempre votato contro la modifica statutaria del voto potenziato, poi si sono ben guardati dall’andarsene. Perché? Perché, afferma lo studio, le società che lo hanno adottato generano più liquidità, pagano dividendi più ricchi, sono più profittevoli. Cioè aumentano il proprio valore in Borsa, proprio quello che piace ai fondi. La riforma della governance potenziata, alla fine, avrà la strada spianata.
Fonte: da FCHub.it del 18 giu 2020