di Giuseppe Pennisi
Un mese fa non ce ne era traccia tanto che il 10 marzo su Avvenire si sottolineò che se volevamo un Piano Marshall avremmo dovuto farcelo in casa, ma di fronte alla pandemia anche l’eurocrazia che Altiero Spinelli (la conosceva bene!) vuole dire ‘lentocrazia’. Questa volta ha, però, ha preso le ali di Mercurio. In poche settimane, sono stati messi insieme vari strumenti aggiornando la cassetta degli attrezzi esistente (non creandone nuovi, ciò avrebbe richiesto troppo tempo): il programma Sure della Commissione europea per la disoccupazione, i prestiti Bei per le piccole e medie imprese, il nuovo sportello Mes per le spese sanitarie, e il Pandemic Emergency Purchase Program (Pepp) della Bce che, se sommati, ammontano ad un Piano Marshall, se non di più. Senza ancora tener conto del Recovery Fund della Commissione europea sul quale, ieri, il Capi di Stato e di governo dell’Unione hanno trovato un’intesa politica.
L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica si è preso la briga di fare le somme ed ha messo sul proprio sito il 16 aprile un’analisi che le compara con il Piano Marshall. In breve, in base all’European Recovery Program (Erp) – nome ufficiale del Piano – dal 1948 al 1952, vennero erogati all’Italia aiuti pari al 9,2% del Pil di quei sei anni del nostro Paese. Erano in gran parte doni ed in piccola prestiti a lungo termine (30-40) con un tasso d’interesse contenuto (2,5% annuo). A titolo di raffronto, senza tener conto della possibile nuova linea di credito del Mes e dell’eventuale accesso alle Omt della Bce, le risorse che potrebbero andare all’Italia dall’Ue per il 2020 sono l’equivalente del 15% del nostro Pil (quale stimato ad inizio anno, ossia prima della contrazione del 9,1% prevista dal Fondo monetario internazionale).
È prevedibile che, se la recessione è profonda e lunga come anticipato dal Fmi e se la cooperazione Italia-Ue è stretta, un ammontare analogo venga ‘socializzato’ a livello europeo per i prossimi anni, anche per evitare al nostro Paese serie difficoltà con il proprio debito. Può anche aumentare (ed in misura molto significativa) in caso di accesso al nuovo sportello Mes ed alle Omt o della nascita di nuovi strumenti.
Si tratta in gran misura di credito agevolato. Se le proposte della Commissione vengono attuate, potrebbe arrivare al 1617% del Pil nei prossimi due anni.
Lo Erp prevedeva una ‘condizionalità forte’: adesione alla Nato, predisposizione di un programma economico approvato dall’Oece (Organizzazione europea per la cooperazione economica da cui successivamente è nata l’Ocse), approvazione dei singoli progetti da parte e dalla ‘stations’ dell’Erp nella capitali europee e della sede centrale Erp a Washington, acquisti di beni e servizi americani in valuta (non si era ancora tornati alla convertibilità), con il ricavo della vendita di tali beni e servizi a imprese italiane costituzione di fondi di contropartita in lire per infrastrutture e servizi pubblici.
Appena possibile, l’Italia preferì correre, per prestiti in valuta, al Fmi ed alla Banca mondiale, che ne praticavano, e ne praticano, di più leggere.
Dato che queste risorse sono disponibili, al Consiglio europeo è meglio non battare i pugni sul tavolo, ma cercare di ottenere il più che si può, mettendo in agenda Ue lo studio di nuovi strumenti e tenendo in mente che i Governi di altri Paesi hanno ben chiaro ciò che ai loro elettori non piace: nel 1992, al fine di essere ammessi nell’eurozona, ci impegnammo a portare il debito pubblico dal 105,5 del Pil al 60% entro il 2004, mentre nel 2020 rischia di sforare (secondo il Fmi) il 150%.