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Conti pubblici, l’Ue cambia metodo ma il gattopardo è in agguato

di Carlo Clericetti

Finalmente anche nelle teste dure dei talebani dell’austerità e delle regolette europee è entrato il concetto che il metodo utilizzato finora per valutare i conti pubblici degli Stati è da cambiare. E’ da tempo che se ne parla, ma ora c’è stata una dichiarazione molto precisa di Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione con la supervisione dell’economia (il “superiore” di Gentiloni, insomma).

Dombrovskis, che si è sempre distinto per la sua tetragona ottusità nel richiamare in ogni occasione il “rispetto delle regole”, ha detto: “Stiamo lavorando alla revisione dei regolamenti e delle direttive del ‘six-pack’ e del ‘two-pack’: in pratica facciamo il punto sulla situazione attuale e valutiamo come le regole di bilancio hanno funzionato negli ultimi anni, e come semplificarle. A settembre i ministri finanziari hanno già discusso la possibile soluzione sulla base di una proposta dell’European Fiscal Board, che penso sia una buona base in termini di semplificazione. La proposta è di abbandonare gli indicatori non osservabili come il saldo strutturale di bilancio o l’output gap”.

L’Italia aveva chiesto da anni una modifica dei criteri, ma finora aveva ottenuto solo piccoli aggiustamenti che non cambiavano la sostanza del metodo utilizzato. C’è voluta una campagna internazionale, lanciata da economisti istituzionali come Robin Brooks, per convincere la Commissione che era stata abbondantemente sorpassata la soglia del ridicolo con gli assurdi risultati derivanti da quella metodologia. Ricordiamo a titolo di esempio che a un certo momento la disoccupazione strutturale spagnola era stata fissata al 25%, o che dalle previsioni di primavera 2018 veniva fuori che nel 2019 l’Italia avrebbe superato la sua crescita potenziale, cioè la nostra economia veniva giudicata “surriscaldata”. Ma di “perle” del genere ce ne sono state a iosa, senza che l’imperturbabilità dei “tecnici” e dei politici europei ne fosse minimamente scalfita. E sulla base di questa metodologia così affidabile e precisa la Commissione aveva il coraggio di sindacare uno sforamento del deficit magari dello 0,2%, chiedendoci (come è in effetti accaduto) altri tagli al bilancio per 3 miliardi.

Che una metodologia cervellotica e inaffidabile venga abbandonata è senz’altro una buona notizia, ma non è affatto detto che quella che la sostituirà ci farà tirare un sospiro di sollievo. La politica dominante in Europa resta quella che i paesi nordici, tedeschi e olandesi soprattutto, hanno imposto fin dai tempi di Maastricht e in seguito resa ancora più stringente: il consolidamento dei conti pubblici prima di tutto, con i suoi corollari di limiti ai deficit e riduzione dei debiti. Se non cambiano gli obiettivi, anche la nuova metodologia sarà scelta in modo da essere funzionale al loro perseguimento.

Dell’European Fiscal Board (o Comitato consultivo europeo per le finanze pubbliche, CCEFP) fanno parte il danese Niels Thygesen, presidente, l’olandese Roel Beetsma, la francese Sandrine Duchêne, il polacco Mateusz Szczurek e Massimo Bordignon, dell’Università Cattolica di Milano. Il Board ha elaborato un rapporto proponendo un nuovo sistema di sorveglianza dei conti pubblici. Il nuovo parametro principale dovrebbe essere il tasso di crescita della spesa pubblica nominale, calcolata senza considerare entrate non permanenti o spese dovute al ciclo, come i sussidi di disoccupazione che aumentano nei periodi di recessione. E’ prevista anche una clausola di deroga, per eventi particolari e che sarebbe concessa in base al giudizio di un organismo indipendente. L’obiettivo per la spesa viene fissato per la fine del triennio successivo, lasciando la scelta ai governi se spendere di più un anno risparmiando di più in quello seguente. Si propone inoltre l’introduzione di una “limitata” golden rule: dal calcolo della crescita della spesa verrebbero escluse le spese di investimento per i progetti individuati nel bilancio Ue, anche quelle in più rispetto agli impegni di co-finanziamento. Il controllo su queste spese, per evitare che i governi facciano i furbi computando sotto quelle voci spese diverse, spetterebbe anche agli organismi indipendenti di ogni Stato (in Italia, l’Ufficio parlamentare di bilancio).

Ci sono poi altri suggerimenti (qui un articolo riassuntivo di Bordignon), come l’abolizione del voto a maggioranza qualificata nella Commissione, un presidente stabile per l’Eurogruppo scelto al di fuori di esso e il mutamento del sistema delle sanzioni: al loro posto andrebbe rafforzata la capacità fiscale dell’Unione (un altro modo di proporre gli eurobond), ma verrebbe escluso dai fondi chi non è in regola. L’obiettivo di riduzione del debito verrebbe fissato paese per paese, non con una regola uguale per tutti come ora, con quelli ad alto debito che si impegnano a ridurlo e quelli a basso debito che dovrebbero aumentare la spesa pubblica per investimenti, specialmente quelli che hanno conti con l’estero in attivo: è l’invito tante volte fatto in particolare a Germania e Olanda, che se ne sono sempre tranquillamente infischiate.

Dombrovskis ha parlato di “una buona base in termini di semplificazione”: ciò non significa che tutte le proposte del Board verranno accolte. Verrà adottato, ormai è quasi certo, un metodo meno scandaloso di quello attuale, basato sull’osservazione del tasso di crescita della spesa primaria – che è un parametro meno arbitrario – e forse con qualche correttivo per evitare effetti pro-ciclici (cioè che in fasi recessive frenino ancor di più l’economia: quello che fece il governo Monti, per esempio). Il Pil potenziale in realtà non scompare, ma viene calcolato sull’arco di dieci anni (i 5 precedenti e i 5 successivi) in modo da risultare più stabile. Ma c’è da scommettere che la golden rule, per quanto limitata, non passerà, e nemmeno l’aumento della capacità fiscale del bilancio europeo. Per convincere i tedeschi ad aumentare la spesa pubblica, poi, non basterebbero nemmeno le bombe atomiche. Si cercherà di cambiare il minimo indispensabile, senza reali svolte nella logica dominante nell’Unione, perché questi sono gli attuali rapporti di forza.

E’ un’altra trattativa che si affianca a quella sull’Esm (il Fondo salva-Stati) e sul completamento dell’unione bancaria. In tutte queste sedi l’Italia dovrebbe avanzare le sue proposte. E se venissero bocciate tutte non dovrebbe aver paura di non firmare altri accordi che ci svantaggino: per esempio, la Polonia lo ha appena fatto non aderendo all’accordo sul clima: è forse stata rasa al suolo per punizione? No, invece riceverà più fondi dal piano europeo per essere compensata nel processo di decarbonizzazione, anche con i nostri soldi. Non si tratta di sbattere i pugni sul tavolo: si tratta di non essere così arrendevoli da non tutelare i nostri interessi.

Fonte: da la Repubblica 22 Gennaio 2020

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