da Mario Baldassarri
Almeno venti anni fa era già evidente che, per partecipare da protagonista nella globalizzazione, l’Unione europea doveva diventare “più grande” come popolazione, mercato e Pil e “più profonda” e cioè “più forte” come assetto istituzionale e rappresentanza politica. Si è allora aperto il dibattito su «allargamento» e/o «approfondimento » (widening, deepening). Fino al 1995 l’Unione europea aveva 12 membri, oggi è partecipata da 28 Stati. L’«allargamento» è quindi avvenuto.
Sul fronte dell’«approfondimento » si è fatto l’euro, ma gli altri passi sono stati piccoli e lenti. Non abbiamo tuttora l’Unione bancaria e siamo ben lontani da un bilancio federale europeo, rimanendo con quello intergovernativo pari all’1% del Pil contro il 25% del bilancio federale americano. Sulla base dei dati storici di Eurostat in termini di Pil reale pro capite, dal 2000 al 2018 l’allargamento ha determinato un processo di convergenza tra i vari Paesi dell’Unione (catching-up), più forte tra i Paesi appartenenti all’euro. Questa convergenza avrebbe potuto e dovuto essere più consistente e più veloce, soprattutto se avessimo avuto un Trattato di Maastricht più intelligente, distinguendo spesa pubblica corrente da investimenti e una Banca centrale europea con due occhi: uno sull’inflazione e uno sulla crescita. Meno male che, dopo Jean-Claude Trichet, Mario Draghi ha aperto i due occhi della Bce.
Pur con questi “peccati originali” però, tutti i Paesi sono cresciuti e i loro redditi pro capite si sono avvicinati. Non è vero quindi che l’Unione e la moneta unica abbiano avuto effetti dirompenti “tra” i vari Paesi. Dai dati storici appare un caso di fake news. Altra fake news è quella di chi sostiene che con più deficit e più debito si può fare più crescita. I dati storici mostrano che è cresciuto di più chi ha fatto meno debito ed è cresciuto di meno chi ha fatto più debito. Tra i 19 Paesi dell’Eurozona e tra i 28 Paesi dell’Unione, l’unica “eccezione” è l’Italia.
Siamo l’unico Paese che, dal 2000 al 2018, ha visto “ridursi” il proprio Pil reale pro capite del 2,3%. Siamo pertanto passati da un reddito reale pro capite pari nel 2000 al 103% della media dell’area euro all’86% del 2018. Abbiamo cioè perso 17 punti percentuali rispetto alla media dei Paesi euro. Rispetto alla media Ue ne abbiamo persi 25. Questa “anomalia” italiana palesemente non dipende dai parametri europei imposti “dall’esterno”, ma da cause strutturali “tutte interne”: più bassi investimenti pubblici e privati, più alta spesa corrente, risparmio pubblico negativo (disavanzo di parte corrente), produttività totale dei fattori in declino. Tutti i governi italiani hanno aumentato la spesa corrente; aumentato le tasse; dimezzato gli investimenti pubblici. Questo mix è stato “vizioso e controproducente”: ha ridotto la crescita e amplificato gli squilibri di finanza pubblica. Questi andamenti sono stati tutti decisi dai vari governi nazionali e non sono stati imposti dalla Commissione europea. Non è quindi colpa di “altri” se l’Italia è l’unica “anomalia” del Vecchio continente.
Sull’approfondimento, il deepening dell’Unione europea, la proposta è quella di fare un piccolo passo in avanti verso l’integrazione ipotizzando un “bilancio aggiuntivo di tipo federale” per circa l’1% del Pil dell’area euro (120 miliardi di euro), indicando sia la provenienza delle entrate sia la destinazione delle spese. Si tratterebbe pertanto di un bilancio aggiuntivo “in pareggio”, senza creare alcun debito europeo. Gli effetti stimati (sulla area euro, sui 19 singoli Stati membri e sui 28 dell’Unione) indicano una maggiore crescita che, nei quattro anni considerati, sarebbe pari al +2,4% nell’Eurozona e al +2% nel totale dell’Unione con impatti positivi anche sui Paesi non membri dell’euro, seppur minori rispetto a quelli che si produrrebbero nei Paesi dell’euro. Da questi primi risultati emerge quindi che il processo di “approfondimento” avvantaggerebbe i Paesi che vi partecipano (quelli dell’euro), ma anche i Paesi non euro. Dal punto di vista dell’economia reale questo è un “gioco a somma positiva per tutti”. Infatti, tutti avrebbero più crescita, più Pil pro capite, meno disoccupazione e più occupazione. Questo “gioco a somma positiva” è a sua volta virtuoso anche sul fronte della finanza pubblica. Per tutta l’area euro il deficit pubblico in rapporto al Pil andrebbe a zero nel 2023, con effetti di riduzione del deficit o di aumento dell’avanzo in tutti i 19 Paesi membri.
Il debito pubblico si ridurrebbe in percentuale del Pil al 74% rispetto al 79% che si avrebbe in assenza del bilancio aggiuntivo. La riduzione del debito si produrrebbe in tutti i Paesi con in testa Italia e Portogallo. L’Italia passerebbe dal 134% al 127% e il Portogallo dal 108% al 101 per cento. Di fronte a questi numeri, nel dibattito europeo si fronteggiano due fazioni “l’un contro l’altra armate”. I nazional-sovranisti sostengono che l’Unione europea e l’euro hanno disgregato i Paesi europei. Come detto, questa è una fake news. Gli europeisti a prescindere insistono nel non toccare l’Europa intergovernativa che abbiamo avuto finora, pensando che si possa andare avanti così. Anche questa è una fake news.
La recente riunione dell’Eurogruppo ne è una palese dimostrazione. Si è vagheggiato di un bilancio aggiuntivo di 22 miliardi per sette anni, poco più di 3 miliardi all’anno, lo 0,0002% del Prodotto interno lordo dell’Unione. Si continua cioè a fare le vestali del tempio con il rischio crescente di veder crollare una a una le sue colonne portanti. Sarebbe invece bene per tutti se ci si confrontasse su come costruire, magari con un piccolo passo in avanti, e non su come distruggere, bombardando il tempio o aspettando inermi che crollino le sue colonne portanti.
Presidente del centro studi Economia reale
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Fonte: IlSole24Ore del 4 luglio 2019