di Franco Debenedetti
Tutte le formazioni politiche che si presenteranno alle elezioni di maggio hanno «Europa» nel loro programma. I seguaci di Emma Bonino l’hanno perfino nel nome, “Più Europa”, secco, senza condizionali. Gli altri invece vogliono l’Europa sì, «ma un’Europa diversa», differenziando, secondo la propria natura, le auspicate “diversità”.
I gialloverdi al governo, in tema di Europa, hanno molto da far dimenticare. Per cui i “piani B” sono stati riposti nei cassetti e le simulazioni che vorrebbero dimostrare il vantaggio di un’uscita dall’euro sono stati declassati a studi accademici, anche se personaggi con ruoli istituzionali continuano imperterriti a sostenerlo. E poi, replicano, si sa che questa eventualità non è nel programma: che volete di più? C’è un’ulteriore ragione per i gialloverdi di calcare la mano sulla «Europa diversa»: perché quanto più diverso è ciò che vogliono, tanto più giustificate sono le critiche che hanno mosse e muovono all’Europa che c’è. E al contrario, tanto più diverso è quel che vogliono e tanto più possono indicare ai loro elettori la causa delle critiche in arrivo da Bruxelles: ci attaccano solo perché noi vogliamo cambiare!
L’opposizione avrebbe anche lei qualche pugno sul tavolo da far dimenticare, però ha tanto da ricordare: può attingere ad anni di studi, a un numero vastissimo di proposte, di simulazioni e discussioni, perlopiù ospitate pure su queste pagine (ultime in ordine di tempo le proposte di Andrea Montanino e Ferdinando Pagnoncelli del 9 aprile). Per fare un esempio, il tema degli eurobond, quante volte e in quanti varianti è stato qui riproposto?
Se si mettessero assieme le “diversità” auspicate da tutte le parti in corsa e si cercassero i temi più frequentati, c’è da scommettere che il maggior numero di occorrenze lo registrerebbe la parola «solidarietà». Una numerosità che richiama una fame insaziabile: nonostante l’Unione europea spenda metà del suo budget per i fondi strutturali e di coesione e più di un altro terzo per la crescita sostenibile (risorse naturali); nonostante il piano Juncker abbia mobilitato 335 miliardi di euro di investimenti supplementari; nonostante nell’Eurozona ci sia stato il Quantitative easing (anche se per riconoscerlo bisogna leggere le critiche che ha ricevuto): di solidarietà sembra che non ce ne sia mai abbastanza.
E qui veniamo al punto. Se per solidarietà si intende che i Paesi con i conti in ordine devono rispondere dei debiti dei Paesi più indebitati, allora bisogna dire chiaro e netto che chi pretende più solidarietà non vuole un’Europa diversa, ma l’Europa non la vuole proprio. Infatti “rispondere” significa sia “trasferire” sia “garantire”: ma l’Unione europea non è una transfer union, e garantire ha un costo, quello della differenza tra il tasso con cui i Paesi dell’Eurozona si indebitano con la Bce e quello che pagherebbero se dovessero andare da soli sul mercato. E a pagare il costo di quella garanzia, in caso di fallimento di un Paese dell’Eurozona, sarebbero gli altri Paesi secondo il loro capital key nella Banca centrale. Si tende a dimenticare che il famoso «whatever it takes» di Mario Draghi fu preceduto da un «within our mandate». Che oggi come allora vieta il bail out.
Chi vuole questa solidarietà, finirebbe per avere il contrario dell’Europa che dice di volere. Supponiamo che di fronte ai danni che produrrebbe l’uscita di un Paese, quelli con i conti in ordine si facessero carico di un adeguato trasferimento di ricchezza dei propri cittadini: questi come minimo esigerebbero la garanzia che non succeda di nuovo, che non divenga un’abitudine. E quindi richiederebbero di andare alle cause che hanno prodotto il debito e alle ragioni per cui, anziché abbatterlo, lo si è lasciato crescere; e questo non riguarda solo il governo in carica, ma chiama in causa il Paese intero, la sua storia, il funzionamento delle sue istituzioni. Non c’è scampo: un Paese sconfitto bisogna gestirlo e per gestirlo bisogna occuparlo. Sarebbe questa l’Europa che vuole chi vuole questa solidarietà?
L’“austerità”, il rispetto dei vincoli non sono l’opposto di solidarietà, sono al contrario ciò che la rendono possibile. Ci vuole un notevole grado di omogeneità e di sincronia tra i Paesi membri perché sia possibile rendere sempre più permeabili i confini tra di loro senza nulla perdere della propria individualità culturale e della propria autonomia decisionale: se quelle condizioni non ci sono la solidarietà è inadatta a crearle, se ci fossero sarebbe superflua. E invece non è raro trovare progetti e propositi in cui la richiesta di più solidarietà è accoppiata all’auspicio di una «ever closer union»: senza che se ne avverta la contradditorietà.
Fonte: da IL SOLE 24 ORE, 16 aprile 2019