• venerdì , 22 Novembre 2024

Telecom e la lunga lotta per la rete fissa

di Franco Debenedetti

Una “proxy fight” quale da noi si vedono poche, aiutata da un provvidenziale intervento dello Stato, quali da noi se ne vedono molti, spodesta l’azionista di maggioranza relativa; ma nomina amministratore delegato la stessa persona che questi aveva designato. Che però, dopo pochi mesi, non gode più del consenso della nuova maggioranza che pertanto il 13 novembre gli ritira le deleghe.. E’ possibile che si vada a un nuovo confronto da cui esca un’altra governance.

Questo è un modo di sintetizzare ciò che è avvenuto in Telecom negli ultimi mesi. Ma c’è anche un altro modo di leggerlo, e cioè come un altro capitolo della contesa per la rete fissa. Una storia che percorre tutta la vicenda Telecom, apparentemente in sottotraccia, in realtà determinandola. Val la pena di ricordarne le tappe fondamentali.

All’atto della privatizzazione il problema non c’era: Ciampi fece il suo capolavoro, convinse Bertinotti a vendere il 100% della Stet tutta intera. Fu dopo l’OPA di Colaninno che esso emerge, come problema di concorrenza, il famoso “problema dell’ultimo miglio”: come assicurare condizioni paritarie in un mercato che, con l’avvento del mobile, si era aperto alla concorrenza. Problema che si è presentato ovunque si è privatizzato il monopolio statale. Ofcom in Inghilterra, dopo avere approfonditamente analizzato le alternative, aveva concluso contro la separazione proprietaria della rete, ma richiesta una separazione funzionale, mettendo suoi uomini a guardia della parità di condizioni di accesso in ogni sua minima accezione. Altri (Australia, Nuova Zelanda) seguirono la strada della separazione proprietaria, con risultati non buoni.

Fase due: quando, con Tronchetti, fu chiaro che Telecom aveva bisogno di un partner straniero, il problema da concorrenziale, divenne nazionale, non si poteva permettere che uno straniero possedesse la rete, battezzata bene strategico. Secondo il piano Rovati, Telecom avrebbe dovuto risolvere i suoi problemi finanziari vendendo la rete, che così sarebbe stata rinazionalizzata. Il piano fu smascherato e garantire l’italianità facendo far guardia alla spagnola Telefònica venne chiamato il Gotha del nostro capitalismo.

La terza fase si apre con il web, e l’avvento della fibra ottica. Girano raffronti con altri Paesi europei sulle connessioni in fibra veloce (poi ultraveloce), senza ricordare che essi avevano le reti di TV via cavo che Stet aveva di fatto impedito da noi, cavi che potevano essere sostituiti da fibra ottica senza bisogno di spaccare le strade. E senza considerare nelle nostre medie c’entra il Mezzogiorno, dove è la domanda ad essere molto bassa. Telecom ha collegato in fibra quasi tutti i suoi armadietti di strada; poiché quando la distanza alla casa è breve (da noi in media 200 metri) il rame consente una velocità di oltre 200 Mb, sceglie la tecnologia FTFC. Nel 2015 con Giuseppe Recchi presidente e Cattaneo AD, lancia un maxi programma di investimenti e nel 2016 costituisce con Fastweb la società Flashfiber per portare l’FTTH in 100 città.

Matteo Renzi coglie il valore politico di intestarsi, oltre al salvataggio di ILVA e (magari) di Montepaschi, anche il 100 Mega per tutti. Individua le zone “ a fallimento di mercato”, stanzia risorse per rendere conveniente investirvi, sceglie una tecnologia, FTTH, e in nome di una presunta sinergia con l’installazione dei contatori elettronici, induce Enel a entrare in questo nuovo business: viene costituita Openfibre, 50% Enel, 50% CDP, che apporta anche la (indirettamente) sua Metroweb, che già aveva cablato 1,2 milioni di unità abitattive. E’ la quarta fase, quella dell’intervento diretto dello Stato, un passo verso la realizzazione di un sogno a lungo coltivato, costituire in CDP una società delle reti in cui far confluire le partecipazioni in Terna e Snam. Ne deriva il problema di definire i rapporti tra i due operatori, e questo rende ancor più difficili i rapporti tra Telecom e MISE, che parteggia, chissà poi perché, per la società pubblica. E quando il fondo Elliott inizia la proxy fight di cui si diceva, CDP ne approfitta per diventare azionista del proprio concorrente, prende una partecipazione del 5%, e contribuisce alla vittoria di Elliott. Vivendi completa così il suo apprendistato dei complicati i rapporti, in Italia, tra politica e industria, che ha dato luogo a posizioni sovente ambigue e oscillanti, anche su questo tema. Dapprima TIM sembra essere pronta a rispondere colpo su colpo, poi il battagliero Cattaneo viene sostituito col più accomodante Genish: proprio l’ex monopolista prova a intestarsi, con alterno entusiasmo, la separazione della rete, cercando una tregua col governo forse per guadagnarsene la simpatia su altre vicende societarie (Mediaset). Vivendi è stato in questa fase il primo attore dell’ambiguità: se avessero tenuto sulla linea Recchi-Cattaneo il problema non si poneva neppure.

In questa quinta fase si intrecciano interessi a breve di estrarre valore dagli asset, interessi strategici di medio termine; entrambi cercando di trarre il massimo vantaggio dalle ambizioni della parte pubblica, e dalle propensioni stataliste delle forze attualmente al governo. Carlo Calenda, che tanto aveva fatto perché lo Stato investisse per “rimediare” al monopolio privato ora dichiara di volere una rete unica, neutrale rispetto agli operatori, cioè pubblica. Intanto la CdA ha abbattuto di 2 mld il valore a libro della rete. C’è chi vorrebbe separare la rete da Telecom e venderne (a CDP, ovviamente) una quota. Altri vorrebbero invece che nella nuova società entrasse Openfibre apportando la sua rete e così concludendo un’operazione che si sta rivelando più complicata del previsto.. Tutti a parole dichiarano che condizione è che Telecom mantenga il controllo della rete. Anche se, quando un socio è lo Stato, le sue azioni sono sempre più pesanti delle altre.

Se il privato vuole dare la rete allo Stato, è perché vuole dargli anche il debito (e una bella quota dei, non pochi, impiegati TIM).

Fonte: da IL SOLE 24 ORE, 14 novembre 2018

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