di Giuliano Cazzola
Così Matteo Salvini ce l’ha fatta di nuovo. Come un buon mediatore di bestiame è riuscito a “piazzare” altrove le “anime morte” che aveva sequestrato sulla nave della Guardia costiera Diciotti nel porto di Catania, dove era approdata dopo molte peripezie.
Non poteva che finire così: quando un rapinatore si fa scudo dei clienti di una banca per fuggire indisturbato dopo il colpo, la polizia che circonda l’edificio – lo vediamo nei film americani – fa di tutto per trattare. Ma una pagina vergognosa come questa non può finire in gloria. I reati non si estinguono quando se ne interrompe la continuazione.
È bene ricordare, allora, nei suoi tratti essenziali questa tragica vicenda, anche perché è stato lo stesso Salvini a garantire che ripeterà la medesima linea di condotta ogni volta che si porrà lo stesso problema. La nave Diciotti è un battello militare impegnato nel pattugliamento del Canale di Sicilia. Prestare soccorso a un’imbarcazione (nella situazione specifica l’uso di questo termine è un eufemismo) era parte integrante delle “regole di ingaggio” dell’equipaggio.
È successo, però, che alla Diciotti – con il carico di 177 esseri umani – è stato proibito per giorni di attraccare nei porti italiani; poi le si è concesso l’approdo a Catania, ma si sono lasciati a bordo, dopo lo sbarco consentito ai minori, 150 poveracci ormai ridotti a una condizione igienico-sanitaria drammatica. Insieme con i profughi stremati sono stati sequestrati anche i nostri concittadini in divisa.
Addirittura un esponente autorevole della Lega ha dichiarato, in tv, che il comandante era imputabile di tradimento per non aver eseguito gli ordini di Salvini. E un altro “simpatizzante” che non nomino si è spinto fino a sostenere che su quella nave i migranti erano saliti volontariamente (infatti, in alternativa, erano liberi di affogare).
Sobillato come sempre, il popolo dei social nel frattempo stava ricoprendo questo valoroso ufficiale di contumelie, insulti e minacce. A quell’energumeno che si è piazzato al Viminale era sfuggita l’esistenza di un quadro di regole a cui un militare deve attenersi. Regole che non possono essere violate neppure per ordine di un ministro (che per di più non è neanche quello competente e superiore in via gerarchica) tenuto anch’esso a rispettarle.
Come se non bastasse Salvini si è persino autoaccusato pubblicamente del reato di sequestro di persone a cui si potrebbero aggiungere l’abuso di ufficio (e di potere) con l’aggravante dei motivi razziali (nei confronti dei profughi il ministro usa espressioni offensive, sprezzanti e volgari) nonché la violazione di un numero elevato di convenzioni internazionali. Ma a provare l’arbitrarietà dell’azione di Salvini, basterebbe sottolineare un solo aspetto: il titolare del Viminale ha calpestato (e promette di farlo ancora) una norma – l’articolo 10 – di quella Costituzione sulla quale ha giurato.
Art. 10 Cost.– L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.
I concetti di “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” (la consuetudine è una delle fonti primarie); di “conformità delle norme e dei trattati” e ancor di più dell’ “effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” hanno un significato molto chiaro e soprattutto un perimetro di applicazione ampio e impegnativo. Nel caso specifico, poi, in quella imbarcazione non erano ammucchiati esseri umani che venivano in Italia per curare a sbafo la scabbia, ma eritrei in fuga da una situazione di guerra e di sofferenze nel loro Paese.
Ci sarebbe, allora, materia per il Tribunale dei ministri. Peraltro, l’articolo 68 della Costituzione, riguardante la disciplina (martoriata) dell’immunità, prevede la possibilità di arresto, senza autorizzazione della Camera a cui appartiene, di un parlamentare nel caso in cui “sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza”. Ovviamente il nostro è un ragionamento teorico, ma non privo di un fondamento giuridico. Alla brutalità del ministro che pretende di impartire ordini via facebook, si è aggiunta la competizione patetica del collega Luigi Di Maio che si è messo ad accusare l’Unione europea di ogni responsabilità nel “lasciare sola l’Italia” a fronteggiare l’invasione (dimenticando che sono proprio i due capibanda a vantare di aver ulteriormente ridotto il numero degli sbarchi, dopo gli effetti della drastica terapia del ministro Minniti).
Di Maio – spalleggiato dopo giorni di silenzio da Giuseppe Conte – ha minacciato Bruxelles di non versare i contributi dovuti dall’Italia al bilancio comunitario. Il trucco sta tutto nel denunciare che l’Europa non si assume delle responsabilità sull’accoglienza dei migranti e che le regole di Dublino non garantiscono a sufficienza l’Italia; ma, contemporaneamente, non si lascia nulla di intentato (in combutta con i Paesi di Visegrad) per far fallire i vertici che dovrebbero impostare una riforma di quel trattato.
È del resto molto facile dimenticare che dei 29,7 miliardi di flessibilità (rispetto alle regole di bilancio della Ue) riconosciuti al nostro Paese, dal 2015 al 2018, una parte consistente è stata attribuita all’emergenza immigrazione. Il ministro Di Maio, tuttavia, si sta distinguendo anche per gestione della vertenza Ilva, a suon di conferenze stampa durante le quali cerca di smontare la più importante iniziativa di politica industriale (una sorta di Resurrezione di Lazzaro) compiuta da un governo negli ultimi anni, insinuando il dubbio che la gara vinta dalla multinazionale Arcelor-Mittal sia inficiata di illegalità. Non è riuscito a trovare uno straccio di prova; è stato sostanzialmente smentito prima dall’Anac poi dall’Avvocatura di Stato (di cui ha “secretato” il parere). Eppure continua ad agitare la clava dell’annullabilità dell’assegnazione, creando così, intorno ad uno stabilimento che ha le ore contate, un clima di sospetto in un’opinione pubblica che pretende solo teste mozzate (che all’Ilva sarebbero migliaia) in nome di un principio talebano di onestà di cui solo il M5S vanta il rilascio della patente.
È al di sopra di ogni giudizio critico la teoria del “delitto perfetto” compiuto dallo Stato da cui sarebbero derivate conseguenze irreparabili, nonostante la presunta gravità degli aspetti riscontrati nell’operazione. Con la sola eccezione del leader della Fim Marco Bentivogli, è impressionante l’inerzia dei sindacati. Se avessero un barlume di intelletto, i loro dirigenti dovrebbero imprimere una svolta in una trattativa che il governo si ostina ad incanalare su di un binario morto. Immagino che quelli più consapevoli si siano amaramente pentiti di non aver approfittato, fino all’ultimo minuto, della mediazione di Carlo Calenda e Teresa Bellanova e di averli praticamente delegittimati in quanto componenti di un governo, che dopo il voto del 4 marzo, operava in regime di ordinaria amministrazione.Confidare nell’iniziativa dell’esecutivo giallo-verde – nella speranza di lucrare qualche posto di lavoro in più – è stato un errore imperdonabile. La vertenza è finita nelle mani di un ministro cinico, disposto a mettere sul lastrico decine di migliaia di famiglie al solo scopo di implementare il consenso per il movimento di cui è capo politico.
A Luigi Di Maio, invece, i sindacati hanno consegnato gratis un piano B. Se non dovesse riuscire il discredito irresponsabile gettato – senza alcun riscontro oggettivo – sulla gara e sull’assegnazione alla società multinazionale che l’ha vinta, ha sempre una carta di riserva: alzare il prezzo nella trattativa sugli organici, facendosi paladino delle richieste dei sindacati, quando si dovrebbe, invece, chiedere loro per quale improvviso sortilegio uno stabilimento ferito a morte potrebbe rinascere in assenza di un progetto che preveda, purtroppo, anche degli esuberi. Affidare le sorti dell’Ilva all’attuale governo, ha significato mettere lo stabilimento (e le persone che ci lavorano) nelle mani del boia. Perché Di Maio considera più vantaggioso sul piano politico denunciare un broglio nella gara (ancorché inesistente o riconducibile ad aspetti trascurabili), anche a costo di mandare a monte un piano di salvezza dell’attività produttiva e di risanamento ambientale, piuttosto che patrocinare un’intesa che si porti appresso dei costi sul piano sociale.
Che la strategia del M5S (di cui è succube la Lega) sia quella di gettare delle teste mozzate alla plebe lo abbiamo visto anche nella tragedia che ha colpito la città di Genova con il crollo del Ponte Morandi. Il trio al vertice dell’esecutivo ha impiegato pochi minuti ad appioppare la responsabilità di quell’evento alla Società Autostrade d’Italia e alla famiglia Benetton, in quanto più importante azionista di Atlantia. Certo, a usare il linguaggio delle Procure, si tratta del maggiore indiziato; ma in uno Stato di diritto, non è un ex carabiniere approdato, per una beffa crudele del destino, al ministero delle Infrastrutture, a fare tutto da sé e a denunciare, un minuto dopo il verificarsi della sciagura, le dinamiche dell’evento e le effettive responsabilità di esso. Non solo le vittime e gli abitanti di Genova, ma tutti gli italiani hanno il sacrosanto diritto di conoscere la verità e di vedere applicate le opportune sanzioni ai colpevoli: ma non ai primi che capitano. Tanto che ora è in corso un’altra situazione paradossale: la società Autostrade, minacciata delle revoca della concessione, incriminata come responsabile della mancata manutenzione del viadotto, massacrata in Borsa, è tuttora incaricata di gestire una possibile messa in sicurezza dei monconi del ponte.
Eppure, assistendo ai funerali delle vittime e agli applausi riservati ai vice premier, vien fatto di credere che la gente non voglia sapere la verità, ma si accontenti di una vendetta purchessia. Il commento più azzeccato sui fatti di Genova (gli applausi, i selfie, i fischi e il loro destinatari) nel giorno delle esequie, è stato quello di Stefano Esposito, ex senatore Pd: “C’è una parte consistente del Paese che vuole sentirsi dire le cose che dicono Salvini e Di Maio e non interessa loro se le cose sono giuste o no”. Il problema dell’Italia è proprio questo, purtroppo.
P.S. – A Matteo Salvini, indagato per i reati attinenti al sequestro della nave Diciotti, sono arrivate le attestazioni di solidarietà di Silvio Berlusconi. Chissà se il ministro gli renderà il favore quando il collega Di Maio vorrà revocare la concessione a Mediaset?
Fonte: HuffingtonPost 27/08/2018