di Bruno Costi
Chi ha a cuore realmente il destino dell’Alitalia più che gli interessi elettorali dei “lega-stellati” da un lato, e del Pd e sinistra tradizionale dall’altro, dovrebbe indagare se l’idea di una compagnia di bandiera tutta italiana nasconde davvero la riedizione delle peggiori prassi delle Partecipazioni Statali che hanno zavorrato la finanza pubblica fino agli anni Novanta, o sia oggi una lucida follia che, cambiati i tempi ed a certe condizioni, potrebbe anche avere qualche chance di successo.
E’ vero, sappiamo già tutto sui nove miliardi di euro costati ai contribuenti italiani, nei circa vent’anni di tentativi di vendere la compagnia di bandiera, mentre privilegi interni, inefficienze e ruberie gestionali ne affossavano i conti.
Non sappiamo, invece, se oltre le parole del neo ministro “pentastellato” Toninelli, paladino di una rinazionalizzazione della società, esiste anche un disegno che poggi su solide basi tecnico-industriali, alla luce dell’esperienza ormai consolidata del trio di commissari straordinari che gestisce la compagnia da quasi due anni, lasciando appena intaccati quei 900 miliardi di prestito ottenuti dallo Stato
Finora, infatti, il dibattito è sceso poco nel dettaglio industriale ed è rimasto in superficie, monopolizzato dalle opposte e contrastanti visioni pseudo ideologiche sull’opportunità culturale di un ritorno allo Stato imprenditore: per negarne la bontà e legittimità, da parte della sinistra pidiessina, interprete del pensiero unico euro liberista, che respinge qualsiasi intrusione pubblica nell’impresa privata intesa come aiuto di Stato che falsa la libera concorrenza; o, al contrario, per rivendicarne la necessità, quando vendere significa impoverire la struttura industriale e l’occupazione, da parte di Lega e Movimento Cinque Stelle, interpreti del nuovo sovranismo economico italiano.
Per capirne di più è forse utile ricordare che l’Alitalia era di proprietà dell’Iri, il colosso delle Partecipazioni Statali smantellato proprio dal quel Paolo Savona Ministro dell’Industria dei primi anni Novanta, quando Carlo Azeglio Ciampi era presidente del Consiglio ed oggi Ministro di rango nel Governo Lega Cinque Stelle. L’ispirazione culturale era che le Partecipazioni Statali , almeno quelle di allora, avevano esaurito il loro ruolo di infrastrutturazione dello Stato post bellico, con quegli investimenti a ritorno differito che i privati non amavano; e che, dunque, continuare a coprire perdite o a finanziarne le attività significava sottrarre risorse al capitale privato. Pertanto, l’imperativo fu vendere, per alimentare il Fondo di ammortamento del debito pubblico, così da ridurre il peso dell’indebitamento sulle finanze pubbliche.
Le cose andarono diversamente: le privatizzazioni oggettivamente avvennero : Ilva, Telecom, Nuovo Pignone, Siv, Ansaldo, BNL , Crediop solo per citare alcuni prestigiosi marchi, passarono effettivamente dal pubblico al privato. Ma la riduzione del debito pubblico no, in quanto i denari incassati (pochi) furono più che azzerati dalla corsa della spesa pubblica corrente in deficit che continuò a cumulare debito. Come prevedevano quelli che all’epoca furono considerati “Cassandre”, vendemmo i gioielli di famiglia per un pranzo in più al ristorante.
Ed ora? Se l’idea di un ritorno al passato è nella mente di chi progetta oggi il salvataggio di Alitalia, per mano della Cassa Depositi e Prestiti, dovremmo avere il coraggio di dire “no grazie”, e ricordare che di guasti a spese dei contribuenti ne sono già stati fatti tanti.
Ma se al contrario si vuole davvero tentare una strada differente e provare a fare di Alitalia il terreno per una nuova idea di politica industriale che tenga conto della storia economica dell’ultimo ventennio, allora il tentativo di dare corpo alla lucida follia di un’Alitalia non ceduta a concorrenti esteri può essere fatto .
Del resto è trascorso quasi un quarto di secolo dalla politica delle privatizzazioni del Governo Ciampi e, nel frattempo, la crisi del decennio 2007-2017 ha visto tentativo di risolvere crisi anche molto più gravi con interventi di nazionalizzazione temporanea avvenuti in Germania e in Gran Bretagna (nelle banche) e soprattutto negli Stati Uniti, dove l’industria dell’auto e delle assicurazioni sono state prima statalizzate in blocco e poi riprivatizzate in blocco, con larghi profitti per lo Stato.
Ebbene se questi sono gli esempi, si tratta di esempi di successo e varrebbe la pena studiarli per verificarne l’applicabilità anche in Italia per Alitalia, avendo a mente tuttavia alcune imprescindibili condizioni:
- che a fronte di investimenti anche ingenti nella flotta sulle rotte più redditizie di lungo raggio , esista realisticamente la possibilità industriale di una resurrezione della compagna di bandiera “stand alone”, ovvero senza alleanze-giaguaro che nascondono svendita di quote di mercato;
- che tali investimenti abbiano un realistico ritorno in termini di redditività;
- che l’investimento dello Stato, cioè della Cassa Depositi e Prestiti, abbia una durata temporanea e sia finalizzato a rimettere sul mercato una compagnia capitalizzata e risanata;
- che l’investimento in Alitalia sia parte di un progetto di valorizzazione e marketing territoriale, turistico-culturale per vendere all’estero soggiorni in Italia;
- che la scelta strategica, una volta risanata la Compagnia, sia di farne una public company, come l’Eni, con golden share in mani pubbliche a tutela dell’investimento strategico effettuato.
Un’idea strategica come questa sarebbe conforme dei vicoli europei e così, forse, la lucida follia potrebbe rivelarsi un po’ più lucida e un po’ meno follia.
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