di Giuliano Cazzola
“Immotivate” le accuse del vicepremier Di Maio a presunte irregolarità nella gara per l’Ilva, quando “l’alternativa alla vendita è solo la chiusura e la rottamazione degli impianti” – Non meno grave la bagarre sulla relazione tecnica al decreto dignità che documenta il rischio di perdere posti di lavoro.
Con le dichiarazioni rese alla Camera sul caso Ilva, il superministro Luigi Di Maio (in arte Giggino De Rege) ha dimostrato, per la seconda volta in pochi giorni, di essere quanto meno irresponsabile. Non è consentito, infatti, a chi riveste funzioni istituzionali importanti di giocare con la pelle di migliaia di lavoratori e con le prospettive di una grande impresa dell’acciaio e del Mezzogiorno al solo scopo di gettare fango sul governo precedente.
Anche in questa vicenda – come su quella del decreto (in)degnità – Di Maio ha diffuso accuse gravissime ed immotivate. Lo ha fatto a proposito dell’inesistente “gelida manina” sabotatrice, nottetempo, della Relazione tecnica (RT) di un decreto legge, aggiungendo considerazioni e giudizi irricevibili da parte degli uffici e degli istituti che avevano svolto con coscienza ed autonomia i loro compiti; lo ha rifatto evocando un “pasticcio” nella gara che ha condotto alla vendita dello stabilimento siderurgico ad un gruppo interessato al suo salvataggio e sviluppo.
A prova delle sue gratuite asserzioni ha annunciato un’inchiesta interna al dicastero dello Sviluppo economico (benché la magistratura inquirente, che ha fatto di tutto per azzoppare l’Ilva, non abbia trovato niente da ridire). Secondo il ministro-ragazzino l’offerta di Acciaitalia era migliore ma “nel bando metà del punteggio era dato al prezzo e non al piano ambientale e alla salute”. A dimostrazione di queste affermazioni ha citato una lettera di Raffaele Cantone (rieccolo!) secondo la quale un passaggio del bando non era ben formulato. Tutto questo a fine corsa, quando l’alternativa alla vendita è solo la chiusura e la rottamazione degli impianti.
Per ora carte non se ne vedono; si ascoltano soltanto accuse di malaffare e di congiure combinate ora dalle lobby interne, ora dalle perverse multinazionali. Per dare un’idea di che cosa è stato capace di escogitare questo ministro (di cui nessuno ha chiesto le dimissioni) torniamo alla cronaca dei fatti riguardanti la tabella infiltrata da una “manina” mentre il testo era in viaggio (ovviamente non a piedi) da via Veneto al Quirinale (senza la scorta di carabinieri a cui Di Maio avrebbe affidato, in seguito, i plichi contenenti altri provvedimenti, allo scopo di evitare le deprecate manomissioni rivolte a sollevare “caciara”).
Dopo la denuncia dell’evento corredata da minacce in tutte le direzioni, Giggino De Rege ha convinto Giovanni Tria a stilare una nota congiunta nella quale – pur di mettere al riparo la Ragioneria Generale dello Stato (RGS) – il titolare del MEF ha concorso a scaricare tutta la responsabilità sull’Inps (e sul presidente Tito Boeri) riconoscendo persino (da economista di vaglia) la mancanza di valore scientifico della tabella incriminata (dove si dimostrava che alcune norme del decreto (in)degnità anziché creare nuovo lavoro stabile distruggevano quello che c’è) e accreditava persino l’esistenza di una “manina” negli apparati (non della RGS) da snidare con zelo e severità.
Non è stata una bella storia, questa, per Tria. Anche perché, se davvero la tabella fosse stata discutibile, il suo ministero non avrebbe potuto lavarsene le mani, perché tocca alla RGS dire l’ultima parola sulle norme di spesa attraverso la “bollinatura”. E ciò vale per tutta la documentazione, anche per quella ricevuta dall’Inps. Al di là della implacabile requisitoria di Tito Boeri in audizione alla Camera (il presidente dell’Inps ha dimostrato ‘’di lacrime grondi e di che sangue’’ il provvedimento) sono i documenti ufficiali a smentire Di Maio: l’articolo 14 comma 2 del decreto stesso laddove è prevista una copertura finanziaria spalmata su più anni, per le minori entrate (contributive e fiscali) derivanti dalla riduzione del monte retributivo a seguito della minore occupazione che si creerà per effetto della nuova disciplina del lavoro a termine e dell’incremento dell’indennità risarcitoria per i licenziamenti ingiustificati.
Da ultimo è intervenuto il Dossier “Verifica delle quantificazioni” a cura del Servizio Bilancio della Camera (18 luglio u.s.). Il documento viviseziona la famigerata Relazione tecnica con molta prudenza e circospezione. Si diffonde sulla necessità di indicare se la diminuzione dei posti di lavoro possa essere qualificata come effetto diretto o indiretto delle nuove norme, ricordando che è prassi seguire una valutazione prudenziale quando si ha a che fare con la seconda fattispecie (effetti indiretti derivanti dai comportamenti delle persone piuttosto che dal dispositivo delle norme).
Nel caso in esame, dopo lunga dissertazione sull’esigenza di cautele prudenziali nell’ occuparsi anche degli effetti indiretti, il Dossier conclude così: “Per quanto attiene al caso in esame, si rileva che la RT, pur facendo discendere dalle ipotesi prima richiamate effetti sia positivi che peggiorativi dei saldi, stima effetti netti onerosi per ciascun esercizio, sia pure di ammontare irrilevante a decorrere dal 2021. Pertanto, sulla base delle considerazioni sopra evidenziate, non sembrano ravvisarsi, sul piano metodologico, elementi di criticità in relazione al criterio di prudenzialità sopra richiamato. In ordine alla predetta ricostruzione (presente nella Relazione tecnica e riguardante i criteri adottati per determinare le esigenze di copertura finanziaria, ndr) appare comunque necessario acquisire l’avviso del Governo”.
In sostanza, l’esecutivo viene invitato a dire la sua sulla valutazione delle quantificazioni contenute nella RT, che non sono affatto ritenute infondate: ovvero il governo è chiamato a discolparsi o a confutare i parametri adottati per calcolare la diminuzione degli occupati.
Tali parametri vengono riassunti come segue nel Dossier del Servizio Bilancio della Camera: “La relazione tecnica afferma preliminarmente che le stime sono state effettuate sulla base dei dati relativi i nuovi contratti a tempo determinato attivati dal 2014 al I trimestre 2018 in possesso del Ministero del lavoro e sulla base delle informazioni desunte dagli archivi Inps. Ai fini della stima degli effetti derivanti dalla riduzione del limite massimo di durata dei contratti a tempo determinato, sono state formulate, per le attivazioni di ciascun anno, le seguenti ipotesi:
- numero annuo di contratti a tempo determinato attivati (al netto dei lavoratori stagionali, agricoli e P.A. e compresi i lavoratori somministrati), pari a 2 milioni, di cui il 4% (80.000) supera la durata effettiva di 24 mesi;
- percentuale di soggetti che non trova altra occupazione dopo i 24 mesi pari a al 10% (8.000);
- retribuzione media mensile di 1.800 euro;
- ulteriore durata del contratto oltre i 24 mesi pari in media a 8 mesi;
- durata della Naspi a normativa variata pari a 12 mesi a fronte dei 16 mesi previsti a normativa vigente.
Le retribuzioni mensili sono state rivalutate sulla base dei parametri contenuti nel DEF 2018”.
Fonte: www.firstonline.info - 21 luglio 2018