di Paolo Savona
Questa campagna elettorale è la prima della storia dell’Italia repubblicana centrata in prevalenza sulla riduzione delle tasse. Non c’è leader di partito che non prometta una specifica o più generale riduzione della pressione fiscale, a prescindere dalla coerenza delle rispettive posizioni.
Ad esempio, che relazione intercorre tra dichiarare che sono stati incassati 20 mld di euro dalla lotta alle evasioni fiscali – un dato che equivale a un aumento della pressione fiscale per giunta accompagnato da dichiarazioni di un aumento del gettito complessivo che va al di là di questa cifra – e affermare che le tasse sono diminuite e in futuro ancora lo saranno? La necessità lungamente evidenziata dagli economisti di ridurre la pressione fiscale si è fatta strada in politica; o almeno così pare. Infatti resta da dimostrare sia che la riduzione della pressione fiscale complessiva è la domanda proveniente dalla società civile, sia come le promesse di riduzione si concilino con gli impegni di spesa già in atto e i vincoli di bilancio nascenti dagli accordi europei; e semmai questi vincoli non contassero, vi sarebbero sempre quelli derivanti dai criteri corretti di gestione di un’economia.
Ciascuna componente della società civile non chiede una riduzione della pressione fiscale per tutti, ma per se stessa; né chiede coerentemente una pari riduzione delle spese, ma di mantenerle, se non proprio di aumentarle per uno dei tanti motivi sociali, e procedere invece a una redistribuzione del carico fiscale, alleggerendo il proprio. La spinta alla redistribuzione del reddito è parte dominante della cultura politica dei cittadini italiani alimentata dalla motivazione etica dell’esistenza di un diritto ad avere condizioni di vita più eque da soddisfare tassando i più ricchi e lottando contro la l’evasione fiscale e la corruzione.
Dopo cinquant’anni di attività redistributiva del reddito, l’Italia si ritrova con una pressione fiscale pari al doppio e un debito pubblico quintuplicato, senza che la distribuzione del reddito sia migliorata, anzi con prospettive di un suo peggioramento che va oltre gli effetti della recente crisi internazionale depressiva del PIL e dell’occupazione. Se il cittadino comune non è in condizione di pensare ai grandi problemi, dovrebbero farlo le organizzazioni rappresentative dei loro interessi (Governo e sindacati); esse hanno innanzitutto il dovere di dare una spiegazione del perché ciò sia accaduto, ancor prima di inseguire un’impossibile correzione della distribuzione del reddito promettendo questa o quella provvidenza nella speranza di trarne un vantaggio politico.
Le motivazioni del fallimento delle politiche redistributive è nel non aver preso atto che esse richiedono non solo l’espressione di una volontà democratica di garantire più eque condizioni di vita per tutti e uno Stato che faccia rispettare queste decisioni, ma anche un buon funzionamento del mercato; invece a questo si attribuisce la responsabilità di una perversa distribuzione del reddito, non di rado spostando l’attenzione sulla globalizzazione che tanto eccita la fantasia di illustri economisti.
Se non si comprende che solo un mercato aperto alla concorrenza in tutti i settori garantisce una più equa distribuzione del reddito e si agisce di conseguenza per ottenerla in forme adatte, non si riuscirà mai a pervenire a una diversa condizione. Si deve partire dalla ricomposizione dell’economia tra settori esposti alla concorrenza interna ed estera e quelli non esposti; gli operatori dei primi, contrariamente a quelli dei secondi, non sono in condizione di fissare i prezzi dei propri prodotti o servizi, perché è la concorrenza a stabilirlo. Ciò significa che gli aumenti di costo – nella sequenza storica del nostro Paese dei salari, dell’energia e fiscali – possono essere trasferiti sui prezzi dai settori non esposti alla concorrenza, che in Italia sono una larga maggioranza, mentre incidono sui margini operativi lordi degli altri settori che non hanno questo potere. A queste condizioni, non si potrà mai attuare con successo non solo una politica distributiva, ma anche una politica economica volta alla crescita del PIL e dell’occupazione.
Il cittadino comune vedrà vanificati i benefici conseguiti attraverso gli aumenti di prezzo e le imprese i guadagni conseguiti con le innovazioni di processo e di prodotto. Il congiunto effetto delle asimmetrie concorrenziali interne ed esterni, del funzionamento del mercato globale centrato su grandi unità leader di prezzo, della libera fissazione del cambio da parte degli Stati o dell’iniziativa finanziaria privata, e della libertà di stabilimento delle unità produttive hanno impedito all’Italia di crescere e di distribuire equamente le risorse. Anche se attuate, le promesse di modificare la tassazione non cambierebbero questa situazione, mentre essa richiede d’essere corretta con provvedimenti strutturali che per essere realizzati devono ottenere il consenso dell’elettorato attraverso l’esplicitazione di una lucida analisi delle cause, che oggi manca.
Il primo passo verso la messa a punto di siffatta politica richiede lo svolgersi di un’intera legislatura che non tocchi nessuna forma di tassazione né in aumento, né in diminuzione per elaborare una riforma fiscale che tolga gli aspetti demenziali assunti nel tempo e semplifichi l’assolvimento passando a due sole tasse, una sul reddito e una sui consumi; le due aliquote andrebbero fissate sulla base dei servizi che la democrazia ritiene equo offrire a livello pubblico, tenendo conto dei vincoli di bilancio derivanti dalla natura del nostro modello di sviluppo che ha uno dei due motori nelle esportazioni (il secondo sono le costruzioni).
La progressività delle imposte sarebbe egualmente garantita, perché tra i redditi andrebbero inclusi anche quelli finanziari o di altra origine oggi sottoposti a una cedolare secca pari a circa la metà della pressione fiscale complessiva (quindi iniqua) e verrebbero tassati consumi che, come noto, dipendono dal livello del reddito disponibile e quindi danno un gettito crescente. Se invece si continua a spostare l’onere da una tassa a un’altra o si chiede di passare da un sussidio all’altro, la situazione non potrà che peggiorare.
I cittadini devono acquisire coscienza collettiva che andrà sempre peggio se si continuano ad aumentare tasse e sussidi in un ambiente dove i settori non esposti alla concorrenza prevalgono; tutti chiedono singole protezioni, ottenendo però che il loro futuro non può più essere garantito. Se desiderano veramente impedire che le imprese spostino all’estero la propria attività o richiedano e ottengano assistenza in nome dell’occupazione per sopravvivere all’interno, devono premere sulla politica per correggere le distorsioni alla concorrenza. Questa sarebbe la vera rivoluzione culturale, non le tante promesse di riduzione fiscale di cui si parla in questa campagna elettorale.
Fonte: Scenari economici e MF del 6 febbraio 2018