di Fabrizio Onida
Tra qualche sforbiciata alle singole voci di impegno finanziario, il nutrito pacchetto di incentivi alle imprese previsto dal programma Industria 4.0 prende corpo nella legge di bilancio 2008. Ad eccezione del finanziamento agevolato della “nuova Sabatini” sull’acquisto o leasing di macchinari in genere, l’orizzonte temporale dei bonus fiscali sugli investimenti in macchinari high-tech (super e iper-ammortamento) e sui crediti d’imposta alla R&S è limitato a uno-due anni, nella logica congiunturale di rilancio degli investimenti dopo la paurosa caduta del 30% dai livelli pre-crisi. Logica che il MEF si auto-impone per lo stringente vincolo di rientro dal debito: un vincolo severamente monitorato dalla Commissione UE, a cui solo disinvolti commentatori pensano che il nostro governo potrebbe sottrarsi.
Resta comunque uno sforzo senza precedenti da parte del governo di dare un’impronta un po’ più strutturale ad una politica industriale dominata dalla sfida della digitalizzazione dell’industria e dei servizi con cui le nostre imprese e i nostri territori si trovano a confrontarsi in presenza di crescente numero e potenza economico-tecnologica di concorrenti anche tra i cosiddetti paesi emergenti, Cina in primis.
Per sottrarsi al rischio di bandi ministeriali, che l’esperienza italica segnala purtroppo come inefficienti (per complessità e ritardi cronici di implementazione) e soggetti ad arbitrio burocratico (ricorsi amministrativi a TAR e Consiglio di Stato), Industria 4.0 fa leva su incentivi quasi esclusivamente fiscali e automatici. Scelta del minor male? Forse, solo che così facendo la nostra politica industriale sta camminando su un sentiero divergente rispetto a quello ormai largamente praticato dei nostri maggiori concorrenti europei, per non parlare degli emergenti. Infatti incentivi fiscali automatici sganciati da qualunque indicazione prioritaria di ricerca “pre-competitiva”, in cui il settore privato è chiamato a partecipare aggregando imprese e centri di ricerca, rischiano (come i classici incentivi a pioggia) di incentivare comportamenti opportunistici, disperdendo i benefici senza generare massa critica di presidio competitivo sui mercati. I paesi avanzati attorno a noi hanno da tempo raccolto la sfida europea dei vari Horizon 2020, Horizon 2030 e simili cornici del “Rinascimento industriale europeo”: si tratti di programmi come i 10 “progetti del futuro” nel quadro tedesco della High-Tech Strategie, o come la decina delle “Soluzioni industriali” francesi coordinate dal Conseil National de l’Industrie e coltivate negli istituti Carnot e nei “poli di competitività”, o come i britannici “Centri catapulta” specializzati, coordinati dall’agenzia governativa “Innovate UK” e programmati per crescere dagli attuali 10 a 30 nel 2030.
Non è casuale che in tutti questi casi di politica industriale, insieme “mission oriented” e “diffusion oriented”, in cui si mobilitano risorse equamente ripartite fra incentivo pubblico e finanziamenti a carico delle singole imprese e dei centri di ricerca partecipanti (a partire dalle università), ricorrono più o meno gli stessi grandi obiettivi tecno-economici e le stesse priorità di sviluppo della società: risparmio energetico con finalità ambientali, nuova manifattura additiva e interconnessa (Internet delle cose), reti intelligenti di trasporti e comunicazione nelle città e fra i territori (smart grids), nuovi materiali per usi domestici e industriali, bio e nanomedicina curativa e preventiva, difesa e sicurezza e così via. Non sono certo “piani di settore” di infausta memoria, ma mirano a mobilitare il settore privato con incentivi pubblici che riducono costi e rischi della ricerca di base (di cui le imprese innovative necessitano come il pane). Puntano a far nascere progetti di incubatori dove ricercatori ed esperti si confrontano da vicino con imprenditori e manager su attività di esplorazione scientifica e tecnologica, produzione di prototipi, sperimentazione e test, analisi della concorrenza, produzione e fruizione di brevetti. Con preziosi travasi di informazioni e conoscenze tra i partecipanti.
Calare questi schemi nel contesto imprenditoriale e istituzionale italiano non è certo impresa da poco, anche se già esistono esperienze interessanti e collaudate come ai Politecnici di Milano e Torino, al Sant’Anna di Pisa, al Federico II di Napoli, all’IIT di Genova. Soprattutto occorrerebbe più iniziativa delle aziende medio-grandi e delle stesse rappresentanze datoriali per lanciare e guidare veri tavoli di ricerca cooperativa pre-competitiva sostenuti al governo. Sarebbe bene guardare oltre gli schemi di semplice spartizione di benefici pecuniari tra imprese individuali, favorendo interconnessioni dentro il nostro tessuto produttivo estremamente frammentato. Suggeritori e protagonisti di questa nuova politica industriale possono e devono essere sempre più le imprese con le loro organizzazioni collettive.
Fonte: da Il Sole24Ore, 16 novembre 2017